di Claudio Saponi
[img align=left]http://www.lapiazza.rn.it/giugno/rimini_arpesella.jpg[/img]
Pietro Arpesella, figura storica e nobile della storia del turismo della nostra riviera, ha deciso di staccare la spina della propria vita. Lo ha deciso il 24 maggio all’età di 95 anni. Una scelta sua, perentoria, schietta (come tutte quelle che hanno caratterizzato la sua esistenza), con un colpo di pistola al cuore… volendo, così, farsi trovare vivo al cospetto della “signora con la falce”.
Una delle testimonianze più complete e suggestive di Pietro Arpesella la si ritrova nel libro-intervista “Diario di bordo” fatta da Giuseppe Chicchi (ex sindaco di Rimini e oggi presidente Apt regionale) nel 2000 (Pietroneno Capitani Editore – presentazione di Sergio Zavoli). Un libro che invitiamo alla lettura.
Arpesella parla dello sviluppo turistico della Riviera e della sua creatura, il Grand Hotel, che ha gestito e avuto in proprietà per 35 anni: “Il Grand Hotel. L’astronave bianca”. Poi “La guerra”: il suo ruolo nell’Aviazione e poi nelle file della Resistenza. Poi ancora “L’America”: lui, ragazzino, emigrato clandestinamente negli Stati Uniti. Infine “Mi ribello alla vecchiaia”: una coraggiosa analisi della propria esistenza arrivata a 92 anni e l’approccio con la morte.
Arpesella, schietto e provocatorio dice sul nostro turismo: “Io penso che il 30-40% degli alberghi esistenti a Rimini dovrebbe essere demolito. Naturalmente ciò comporta processi di trasformazione lenti, ma dobbiamo dirci con chiarezza che 1.350 alberghi a Rimini, con una dimensione media in posti letto di non più di 40 camere per albergo che farebbe sorridere qualunque tour-operator d’Europa, rappresenta un punto di debolezza, non un punto di forza”.
Domanda Chicchi: il Grand Hotel cosa può insegnare per il futuro del turismo riminese?
“Quasi tutto – risponde Arpesella -. Non è un problema di stelle, è un problema di qualità dentro ciascun campo d’azione… la ricerca della qualità, l’atteggiamento mentale dell’albergatore, la ricerca di segmenti di mercato e di prodotti nuovi”.
Pietro Arpesella, figlio di Guido, caporeparto navale, socialista turatiano, antifascista, esiliato in Argentina, non poteva che fare propri i valori e i principi solidi trasmessi dal padre. “Il fascismo – dice – fu un tentativo fallimentare e disastroso dell’Italia di uscire dai confini dell’Italietta. Questo fallimento costò la perdita della democrazia ma soprattutto costò il prezzo enorme della guerra e della morte di milioni di italiani. … La Resistenza salvò la dignità dell’Italia e fu importante per gli anni della ricostruzione perché aiutò a far nascere un sistema di regole condivise (la Costituzione Italiana) e aiutò a farle rispettare dagli alleati vittoriosi”.
Nell’ultima parte del libro Chicchi chiede della sua grande vitalità, della sua esistenza avventurosa, ma che si avvicina a fare i conti con la morte. Qui viene fuori tutto la forza, la lucidità del personaggio Arpesella. “Sarei un pazzo se dicessi che la morte possiamo controllarla. Essa verrà per ognuno di noi e dovremo accettarla. Io mi ribello all’idea della morte, al fatto che essa possa condizionare la mia vita, che debba confinarmi in un atteggiamento di attesa. Magari seduto davanti al fuoco con una coperta sulle ginocchia ad aspettare il grande momento del trapasso. Non posso impedire alla morte di prendermi quando verrà quel momento, ma posso impedire alla morte di possedere il mio essere, di paralizzarmi finché sono vivo.
…Esiste una vecchiaia fisiologica che è storicamente relativa, che slitta in avanti con il miglioramento delle condizioni di vita. Poi esiste una vecchiaia ‘mentale’, culturale, prodotta dalla società e dalla Chiesa, a cui molti cedono per debolezza, per insicurezza.
Mi rendo conto che sono pochi gli anziani che rifiutano il loro ruolo; i più accettano supinamente la protezione della società in cambio del silenzio, della ghettizzazione. A questa subalternità io mi ribello, perchè toglie una parte importante della vita; quelli sono diventati vecchi non perchè il loro corpo non possa funzionare, ma perché la società ha deciso così. Qui si compie un altro errore grave, perché la felicità degli anziani darà risultati sociali straordinari, sarà un beneficio per tutti”.