Il ricordo dei giorni che precedevano le festività natalizie in chi è stato bambino alla fine degli anni ’50 ha vibrazioni particolari. Vibrazioni che forse nascono dagli arcobaleni della vita o da un supplemento di anima e di poesia che certe stagioni della storia ti donano con intensità eccezionale, quasi magica, e che non ti lasciano più.
Chissà, forse quella dei cinquantenni è una delle ultime generazioni che ha toccato il Natale nella meraviglia di un’atmosfera che solo i bambini percepiscono straordinaria e unica; oppure molto più semplicemente perché in quegli anni tutto sembrava rinascere e crescere in pienezza e gli occhi dei più piccoli vedevano nelle lotte quotidiane dei più grandi spazi di speranza come soffio sulla brace: tutto appariva aprirsi al fuoco di vere felicità e di grandi sogni.
Oggi è difficile rivivere quell’atmosfera per questo la nostalgia che ci assale è più prossima all’etimologia che la sottende: ricordo nel dolore, ma il dolore di quel ricordo non è rivolto ad un passato che non tornerà, bensì ad un presente che ha paura del futuro e che del passato rifiuta la memoria.
Sembriamo scorgere proprio queste cose nel grigio forte delle odierne esistenze virtuali: si abbandona la storia, si rifugge il sogno, ci si realizza nell’attimo fuggente o in una frammentarietà senza tempo che adora il consumo per frantumarsi inesorabilmente nel nulla.
Anche Dio allora sembrava diverso, tornava ogni anno nel presepio della vita e lo si vedeva gironzolare nel respiro familiare di semplici gesti, di odori buoni, di colori autentici, di suoni festosi e di rumori laboriosi.
Era un Dio fragile: aveva un volto di bambino, e in quei giorni tutti sapevano che Lui era così e lo accettavano anche i più lontani: quelli che con Dio avevano un conto aperto o un conflitto irriducibile.
Era un Dio bambino che si lasciava aiutare: forse perché il bambino era considerato un vangelo incarnato, il vangelo della quotidianità; non si pensava al candore dell’innocenza, non si pensava al bambino che non sa far del male. Si pensava ad altro, al fatto che il bambino vive solo se è amato, il bambino vive di amore, si nutre di latte, certo, ma soprattutto di amore e di sogni. C’era una fiducia infantile che apriva le braccia all’impossibile, e c’era qualcosa di incomprensibile che saziava ogni sete.
E tutte le cose sembravano annunciare che Dio abita dove lo si lascia entrare, e non era invece una commedia piena di rumore e di furore nell’anfora d’ombre della vita, ma una dolce inquietudine che portava nuove stelle polari. Ogni creatura, allora, riprendeva la sua avventura, quella di diventare vera, di diventare sillaba di bene fino a farsi carne intrisa di Cielo.
Nessuno sa più vedere Dio, forse perché nessuno sa più inchinarsi così profondamente da scoprire che il vangelo della vita è una sensualità, una poesia, una parola, e quando voci piene di chiacchiera pretendono di portarlo come un vessillo esso fugge lasciando però una melodia strana nella foresta dei sogni.
Noi non abbiamo prove che dimostrino il Natale, perché il Natale si conquista lentamente, si apre per noi solo se lo vogliamo, come un orizzonte di eternità, uno sfondamento del tempo verso l’eterno per assicurarci che c’è un senso, c’è un progetto, c’è un sogno, e che non viviamo i nostri giorni solo attorno al breve giro del sole, che non viviamo la nostra vita chiusi dentro il breve cerchio dei nostri spazi o di desideri consumati.
Questo dicevano i padri del deserto: se ti chini su te stesso, sul tuo intimo, su quella parte di te che non riveli a nessuno, né all’amico, né alla madre, né allo sposo, se ti chini sul tuo segreto più profondo, là dove nascono i sogni e l’amore, là vedrai emergere un volto che non è il tuo volto, ma quello di un Bambino che vivrà solo per il tuo amore.
Natale? Natale?
di Padre Benito Fusco
Direttore dell’Istituto
San Pellegrino
dei Frati Servi di Maria