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In alto da sinistra: Guerrino Prioli ‘Ciod’, Alberto Prioli ‘Bertino’, Lino ad Santnel, Mario Bragagna. In basso da sinistra: ?, Nello Gregorini, Maria Gabellini ‘Fighèt’, Dirce Tonelli, Irma Leardini, Alberto Semprini, Dino Semprini ‘Maremma’
di Alberto Prioli
– “Quando gli albanesi eravamo noi”. “Per ben vivere si deve ben ricordare”. Queste parole dovrebbero essere scolpite nella testa e nel cuore degli italiani. Nella fotografia a fianco si vedono emigranti di Cattolica in partenza verso l’America del Sud, l’Argentina. Era l’inizio di dicembre 1947. C’ero anch’io, avevo 5 anni. Ci sono le storie di quelle famiglie e di tante altre persone che hanno sofferto la miseria, l’umiliazione, la nostalgia di una Patria matrigna abbandonata, ma mai dimenticata.
Questi emigranti, a differenza di tanti altri, sono stati fortunati, perchè avevano i soldi per comprarsi il biglietto del viaggio, senza tanti debiti e qualcuno anche un posto di approdo dall’altra parte dell’oceano. Ma al tempo stesso li attanagliava l’angoscia dell’incertezza: le incognite sul loro futuro, la non conoscenza della lingua, il modo di vivere, la preoccupazione sull’accoglienza… E poi la paura di non trovare una sistemazione duratura, per potersi integrare serenamente nella nuova terra, per non sentirsi poi chiamare “gringo de mierda”.
Guardando la fotografia si legge il nome della nave sul salvagente: “Santa Cruz – Panama” e allora si può capire che nulla cambia. Lo sfruttamento sull’emigrante c’è sempre stato, sistematico come ai giorni nostri da parte delle compagnie di navigazione che caricavano le persone come se fossero bestie. Avevano imbarcato 1.500 emigranti, 5-600 persone in ogni camerone, stipati in “Terza classe-emigranti” in fondo alla stiva, dormendo in brandine una sopra l’altra. C’erano solo 6-7 bagni, e contro il mal di mare ognuno aveva a disposizione un secchio che serviva anche per l’acqua per pulire dopo i bisogni. I giorni di navigazione furono 28.
Tante speranze nel cuore, perchè si era lasciata una Patria distrutta dalla guerra, una guerra fatta da una banda di delinquenti. La miseria costringeva a partire, non importa per dove, perchè non c’era lavoro per mantenere una famiglia. Non si deve dimenticare il nostro passato di popolo di emigranti. Molti dei sogni di quelle persone non si sono realizzati. L’emigrante parte sempre col dolore nel cuore, non fugge dal suo Paese per fare turismo.
Concludo con alcuni passaggi dell’introduzione al libro di Gian Antonio Stella “L’orda – Quando gli albanesi eravamo noi”. “Quando gli albanesi eravamo noi, ci linciavano come ladri di posti di lavoro, ci consideravano ‘non visibilmente negri’ nelle sentenze dell’Alabama, ci accusavano di essere tutti criminali rinfacciandoci di rappresentare quasi la metà dei detenuti stranieri di New York. …Quando gli albanesi eravamo noi, era solo ieri. Tanto che in Svizzera pochi anni fa tenevano ancora trentamila figli nascosti che frequentavano scuole clandestine perchè ai papà non era consentito portarsi dietro la famiglia. …Nella ricostruzione di Gian Antonio Stella c’è finalmente l’altra faccia della grande emigrazione italiana. Quella che meglio dovremmo conoscere per capire, rispettare e amare ancora di più i nostri nonni, padri, madri e sorelle che partirono. Quella che abbiamo rimosso per ricordare solo gli ‘zii d’America’ arricchiti e vincenti. Una scelta fatta per raccontare a noi stessi, in questi anni di confronto con le ‘orde’ di immigrati in Italia e di montante xenofobia, che quando eravamo noi gli immigrati degli altri, eravamo ‘diversi’. Più amati e migliori. Ma non è esattamente così”.