Il preservare il corpo dei morti attraverso la inumazione o la tumulazione ovvero la conservazione delle ceneri attraverso la cremazione, può rappresentare una sorta di illusione dell’uomo di far perdurare il rapporto con i propri defunti attraverso una serie di riti che iniziano con la pompa funebre e si protraggono nel tempo con scandite ricorrenze che costellano la vita delle persone nel ricordo dei loro cari estinti.
Gli uomini, fin dall’antichità, hanno teso ad individuare, attorno al fenomeno della morte, l’inizio di un viaggio che non troncasse la vita che si era appena spenta e ciò nella eterna illusione di non morire, (che è tipica del mito), di poter continuare a vivere, magari in un’altra dimensione.
La religione dell’antico Egitto è quella che ha concesso un grande spazio alle dottrine dell’oltretomba ed alle pratiche cultuali che da esse derivano. Si pensi alla imbalsamazione dei morti, alla pretesa loro alimentazione, per il che nelle tombe sepolcrali venivano richiuse le cibaglie prelibate accanto al defunto, ed alla serie di pratiche funerarie tutte tese a facilitare la sorte ultraterrena dei defunti.
Altri miti dell’antichità raccontano che un tempo gli uomini si credevano immortali e le morti un fatto fortuito, accidentale, dovuto a cause occasionali e sporadiche, per cui nell’insieme la comunità non andava incontro ad una naturale vita temporanea, poi invece la morte intervenne nella realtà umana come risultato di un castigo, di una punizione per la disubbidienza degli uomini, per la loro trasgressione ad una prescrizione divina (e qui il libro della Genesi con Adamo ed Eva ne è l’esempio più noto).
Presso i popoli Assiro – Babilonesi gli spiriti dei morti potevano trovare pace a condizione che i loro corpi fossero stati sepolti ed il luogo del loro soggiorno era il “Kigalla” cioè la “grande terra” che era una località nell’ombra di una esistenza vegetativa ove tutti i morti erano uguali. Tuttavia non mancavano gli eletti che potevano partecipare, se meritevoli, ad una immortalità pari a quella delle divinità. I vivi, attraverso una serie di riti, si potevano rendere utili alla sorte dei morti.
Presso la cultura ebraica si riscontra il concetto (vedi Ezechiele) di una ricompensa nell’oltretomba in relazione al comportamento del defunto derivante dalle sue azioni buone e cattive condotte durante la sua vita.
Nella Bibbia (libro dei Profeti – Daniele: “La resurrezione e la ricompensa”, 12) emerge la fede nella resurrezione dei corpi e nel giudizio finale ….. “E un gran numero di quelli che dormono nella polvere della terra si desteranno: gli uni per la vita eterna, gli altri per il ludibrio e per l’infamia perpetua ….”.
Presso i Romani prevalse una fondamentale distanza tra i vivi ed i morti che venivano collocati al di fuori della città in appositi cimiteri con la conservazione delle urne funerarie.
Durante i riti funebri vigeva l’usanza del banchetto tra i parenti del defunto, che si protrasse per lungo tempo, anche nei primi secoli dell’era volgare.
Presso la cultura islamica si assiste alla inumazione dei morti direttamente nella terra, senza una cassa e, dopo la morte, il Dio assegna al cadavere l’anima ed i sensi che gli serviranno per affrontare le domande degli angeli e superare il giudizio atto a ricevere una anticipazione di una paradisiaca condizione di felicità, od altrimenti la pena del sepolcro se incapace di rispondere alle angeliche domande.
Anche per l’Islam i morti risorgeranno al momento del giudizio finale e nell’attraversare il sottilissimo ponte sopra l’abisso dell’inferno, i cattivi dovranno precipitare, mentre i buoni e virtuosi arriveranno al Paradiso (“luogo delle Vergini ove si potrà contemplare il divino”).
Nell’antica Grecia Epicuro (il filosofo del giardino), diceva che la morte è un fatto naturale così come la morte di tutti i viventi e che non è certo il caso di temerla perchè quando noi ci siamo la morte non c’è e quando c’è la morte noi non ci siamo più.
Con il Cristianesimo la morte rappresenta la fine della vita terrena (quale pausa di passaggio in questa “Valle di lacrime”), per affrontare l’eternità da parte dell’anima che esce dal corpo mortale e si presenta al cospetto di Dio per ricevere la ricompensa o la condanna a seconda se il corpo mortale ha posto fine ai suoi giorni nella grazia di Dio, oppure no.
Qui appare evidente l’importanza di confessarsi in tempo prima della morte per potersi redimere, a prescindere da quanti e quali misfatti, reati e peccati si siano potuti compiere in vita (è rivelatore l’esempio di S. Agostino che, dopo una giovinezza di peccatore, si rivolge a Dio dicendo “Signore concedimi il dono della castità, ma non subito subito”).
Ciascuno di noi ha ovviamente un proprio concetto, una propria opinione della vita e della morte.
Personalmente penso che la vita dell’uomo, così come la vita degli animali, delle piante e di tutti gli esseri viventi in genere, sia regolata da un complesso di proprietà fondamentali comuni che permette di nascere, crescere, svilupparsi, riprodursi, muoversi, reagire, ecc… attraverso una serie di funzioni quali la nutrizione, la digestione, l’assimilazione, la circolazione, la respirazione, la escrezione, ecc… funzioni tutte legate alla costituzione chimica della struttura cellulare dei viventi ed alle loro condizioni ambientali.
La morte, che personalmente penso sia l’ultima tappa naturale della vita dei viventi, la vedo filosoficamente come la manifestazione più radicale del carattere temporale e finito della esistenza. Quindi è un fatto naturale che riguarda tutti.
Di noi, quale spirito immortale, resterà il ricordo di ciò che siamo stati e di ciò che abbiamo fatto e l’esempio che abbiamo dato quale ovvia conseguenza comportamentale della nostra fede nei grandi valori della vita quali: l’onestà, la bontà, l’amicizia, la lealtà e la fede nella ragione e nella capacità dell’uomo di dare campo alla sua mente verso il grande spazio cosmico dell’universo.
Oggi, la nostra sviluppata civiltà tecnologica ci permette di ricordare i nostri cari defunti non solo nei nomi e nelle date scolpite nei cippi lapidei del cimitero, ma anche nelle fotografie dei volti di coloro che sono stati. Nel camminare lungo i portici cimiteriali, tutte le foto che ci guardano dai loculi ci rammentano che loro sono già stati come noi e che noi sicuramente diventeremo come loro: quindi sarebbe forse il caso di chiederci se non sia meglio prendere la vita in maniera meno convulsa, con più amore e con più filosofia?
di Silvio Di Giovanni