– Questa nostra Romagna, terra dalla geometria variabile a seconda dei tempi e dei momenti della sua storia, terra di gente calda, focosa e generosa, terra di gente dallo spirito indomito e ribelle al potere nefasto della tirannide dei potenti e della Chiesa, terra i cui uomini hanno dato un eroico contributo alle lotte del Risorgimento per la formazione di un’Italia unita, terra che vanta i natali di Andrea Costa primo parlamentare socialista (1881) della storia d’Italia, terra che ha aderito con le sue città alla Repubblica Romana nel 1849 e che ha dato rifugio all’eroe dei due mondi, terra che può essere considerata la culla del movimento operaio italiano e del movimento cooperativo che ebbe come pioniere ed organizzatore quel suo figlio generoso che risponde al nome di Nullo Baldini, terra che nella guerra di liberazione del 1943-45 ha dato un valido contributo con le sue brigate partigiane sia
sull’Appennino sia nella pianura ravennate dove gli uomini del leggendario Bulow indebolivano le azioni dell’occupante germanico e dei suoi accoliti repubblichini e liberavano la stessa Ravenna, terra che ha contribuito fortemente alla formazione della nostra Italia unita e democratica;
questa terra viene oggi interessata da una iniziativa il cui scopo è quello di perseguire un intento che possiamo chiamare come: …. “separatista”? E’ calzante questa definizione? Oppure no?
Questa nostra terra di Romagna che occupa la zona sud orientale della Regione Emilia-Romagna e che non ha e non ha mai avuto esatti confini verso nord ovest, viene a trovarsi oggi al centro di una diatriba tra chi vorrebbe staccarla dal resto dell’Emilia, per farne una Regione autonoma e chi non è d’accordo con questa iniziativa.
Ma quale è la ragione per cui i romagnoli dovrebbero staccarsi dal resto dell’Emilia? Vi sono esatte ragioni storiche? O geografiche? O vi sono questioni di opportunità economiche? E quale dovrebbe poi essere la capitale di questa nuova Regione? La storia del passato non dimostra mai una esatta regionalità della Romagna e né esatte linee di demarcazione verso nord-ovest.
Nell’età della Roma imperiale faceva parte della Ottava Regione Emilia in base all’ordinamento di Augusto. Nel IV secolo faceva parte della Pentapoli, era cioè inserita, assieme ai territori dell’Esarcato di Ravenna, con le cinque città legate da un fattore comune amministrativo, politico e religioso (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona).
Il nome di Romània venne dato, dopo l’invasione longobarda, a quel territorio rimasto in Italia all’Impero di Bisanzio, come per rivendicare una continuazione della civiltà romana in contrapposizione alla Longobardìa.
Poi nel 756 Pipino il Breve, cosiddetto perché di piccola statura, Re dei Franchi e figlio di Carlo Martello, dopo il ritiro in convento di suo fratello Carlomanno, riuscirà a costringere Astolfo, Re dei Longobardi, a lasciargli le terre dell’Esarcato e della Pentapoli, che gli serviranno per farne dono al Papa Stefano II il quale gli ha fatto già esplicita richiesta recandosi personalmente in Francia, per incoronarlo Re dei Franchi, quale compenso. Sarà questa donazione l’origine del dominio pontificio della Marca e della Romagna. (1)
Nel XII secolo le città romagnole si danno degli ordinamenti comunali ma sviluppano anche una serie di lotte e di alleanze con guerre intestine; avremo Bologna e Faenza contro Forlì; Bologna che vuole sottomettere Imola, Ferrara che entra nella Lega Lombarda contro il Barbarossa. Nel secolo seguente gli imperatori riconoscono sulla Romagna l’autorità del Papa ma, fino alla fine del XV secolo, questa sarà contestata da quei comuni che sono riusciti a sopravvivere.
Assistiamo anche alla formazione delle Signorie che scaturiscono principalmente in conseguenza della politica nepotista dei vari Papi (vedasi il Papa Sisto IV che concede le città di Forlì e di Imola a suo nipote Riario e vedasi il Papa Borgia, Alessandro VI, che lascia suo figlio Cesare, il Valentino, libero di costringere tutte le città della Romagna sotto il suo dominio in una unica Signoria).
Tra le altre Signorie, sorte sotto la spinta delle armi da parte dei vari capitani di ventura abbiamo quelle di Alberico da Barbiano, Muzio Attendolo Sforza, Giovanni dalle bande nere che è figlio di Caterina da Forlì e poi, nel nostro riminese, Sigismondo Pandolfo Malatesta uomo d’arme, ma anche di cultura e mecenate che ci ha lasciato il Tempio Malatestiano in Rimini opera dell’Alberti.
Nel 1530 i veneziani, che con una buona amministrazione avevano gestito tutte le terre della fascia costiera fino a Cervia, si ritirarono e tutta la Romagna cadde di nuovo sotto il dominio diretto dello Stato della Chiesa e questo durerà fino alla fine del Settecento (1796).
E’ questa una data importante per la terra di Romagna per la sua inclusione prima nella Repubblica Cispadana poi nella Cisalpina, che risveglieranno in essa la cultura e la vita con spirito laico di libertà e ribellione. Si infonderanno negli animi il giacobinismo che accenderà la fiamma della politica rivoluzionaria per il superamento dell’oscurantismo clericale e aprirà la scintilla per la formazione di una democrazia futura. Dopo la caduta delle illusioni provenienti dalla ventata transalpina, sarà il Congresso di Vienna del 1815, con la restaurazione e la repressione papalina, che spingerà la nuova borghesia ed una parte anche della aristocrazia, alla cospirazione nelle sette liberali.
Con l’epopea del Risorgimento, con i primi moti del 1820 e del 1821, con i moti di Rimini del 1831, con i moti delle Balze del 1845, con la partecipazione di Aurelio Saffi nel 1849 alla Repubblica Romana, assistiamo ad una serie di accadimenti che qualificano lo spirito emiliano-romagnolo in una autentica partecipazione popolare e al risveglio delle coscienze contro il nefasto, ottuso ed anacronistico dominio assoluto della Chiesa.
Osserviamo che, dopo la formazione dello stato italiano unitario nel censimento del 1871 (quindi 10 anni dopo) ciò che ha lasciato lo Stato Pontificio nelle Romagne è semplicemente disastroso sotto l’aspetto economico, sociale e civile. Vi è l’ottanta per cento dell’analfabetismo, la disoccupazione, uno stato di fame endemica, le popolazioni affette dalla pellagra perché costrette dalla miseria a nutrirsi esclusivamente di polenta. Qui, in queste terribili condizioni, si innestano le mirabili capacità e risorse di grandi uomini che inventano le società operaie, le società di mutuo soccorso, le leghe di resistenza, le cooperative di consumo, le cooperative bracciantili (socialiste e repubblicane ma anche cattoliche).
Nel 1914 la nostra terra di Romagna, al centro di acuti conflitti sociali derivanti dalla disoccupazione ed animata dallo spirito, forse innato, dell’antiautoritarismo e dallo spirito antimonarchico della popolazione, sarà teatro di una breve rivolta popolare che passa sotto il nome di “settimana rossa”. Poi la nascente piaga dell’interventismo, che prevarrà ed attuerà l’intervento armato, produrrà lutti e rovine a non finire nella Prima Guerra Mondiale, dividendo i socialisti e i repubblicani.
Purtroppo nel dopoguerra lo squadrismo agrario attuerà un insieme di prove generali a partire dal 1921-22 proprio nella nostra Romagna. Le cosiddette “colonne di fuoco”, capeggiate dagli squadristi Italo Balbo e Dino Grandi, assaliranno e devasteranno le cooperative, le camere del lavoro ed assassineranno un numero impressionante di oppositori al fascismo. E saranno proprio gli emiliano-romagnoli, più di ogni altro popolo italiano, ad opporsi alle vili azioni di quelle squadracce di delinquenti che, agivano spesso anche con il complice silenzio della forza pubblica, distruggendo quanto di più nobile possa produrre l’associazionismo in nome della volontà popolare e della gestione democratica della cosa comune.
Non mi pare che nella storia della Romagna si ravvisino gli elementi per giustificare uno strappo per una identificazione autonoma. Non si riscontrano identità culturali proprie distaccate da quelle delle zone limitrofe. La nostra Romagna non è una Regione chiusa, non è il frutto di quei processi di isolamento tradizionale che possano sedimentare antropologicamente il profilo di un popolo autenticamente connotato. E’ invece una “periferia mobile sorta attraverso scambi, incontri, sovrapposizione di genti, di poteri, di culture” (come evidenzia il professore Roberto Balzani nel suo volume “La Romagna”, ed. il Mulino 2001).
Se osserviamo la descrizione della Romagna ai tempi di Dante si nota che il limite verso nord-ovest arriva a comprendere buona parte dell’Emilia con Bologna e Ferrara comprese, restano fuori solo le province di Parma Piacenza Modena e Reggio Emilia. Sarebbe ragionevole un tale confine? Oppure quale dovrebbe essere? E perché?
Ci sono invece altre ragioni? Di carattere amministrativo? Di convenienza economica?
E perché può essere più conveniente stabilire una nuova capitale più vicina di una Regione più ristretta che svolga meglio il ruolo di distribuzione delle risorse? Se è così la soluzione non dovrebbe forse essere diversa? Non dovrebbe passare attraverso una maggiore capacità di incidenza nel governo della Regione ed una maggiore partecipazione ed espressione dei particolarismi locali degni di attenzione ? Non sono forse questi dei problemi che resterebbero poi sempre anche dopo la costituzione di una più piccola Regione? Non ha forse Rimini una realtà locale ed economica del tutto diversa da Forlì da Cesena e da Ravenna? Cosa faremmo poi in futuro? Nascerebbero altre spinte separatiste perché la peculiare economia riminese richiederebbe una attenzione che i forlivesi, i cesenati ed i ravennati non sarebbero in grado di capire?
di Silvio Di Giovanni