– Ho incontrato Gualtiero la prima volta per caso. Era venuto a scuola a cercare una persona. Mi sono bastate poche battute per capire quanti ricordi e quante cose potesse raccontarmi. Gualtiero è un misanese doc, conosce tutte le vicende del comune di Misano dal dopo guerra in poi.
E’ stato fra i primi ad aprire un bar sulla passeggiata per i turisti. Conosce quasi tutte le vecchie famiglie misanesi ed i loro antichi soprannomi. La cosa però che più mi ha colpito, è stata la sua esperienza in qualità di bersagliere alla campagna di Russia ’41-’43.
Ci incontriamo un pomeriggio a casa sua fra vecchie foto e ricordi vari. Comincia il suo racconto, è deciso e va di corsa proprio come un bersagliere.
Mi dice: “Noi della guerra non sapevamo niente, c’era paura, non è come adesso. La mia mobilitazione è iniziata nel gennaio 1941, prima destinazione Ferrara. Lì dopo tre mesi di corso sono stato destinato all’artiglieria con i pezzi da 47/32. Ero del 6° reggimento ma ci hanno aggregato al 3° reggimento della divisione Celere. Nella primavera del ’41 ci destinano sul confine jugoslavo. Abbiamo attraversato i confini jugoslavi dell’Istria e Fiume senza sparare un colpo. Siamo rimasti in Jugoslavia quattro mesi senza grossi problemi. Dopo siamo rientrati e ci hanno destinati a Calmasino sul Lago di Garda per riorganizzare il reparto e lì siamo rimasti circa due mesi. La successiva destinazione sarebbe stata di ben altra natura, Russia”.
“Siamo stati fra i primi – continua Bellettini – a partire con lo C.S.I.R. ( Corpo di Spedizione In Russia ). Facevano parte dello C.S.I.R. tre Divisioni, la Pasubio, la Torino e la Celere, 60.000 uomini in tutto, 4.600 fra cavalli e muli, 5.500 automezzi e 80 aerei da ricognizione e caccia. Il 10 luglio del 1941 verso mezzanotte siamo partiti da Verona con questo percorso: Brennero, Germania, Ungheria, Moldavia Romena, Ucraina e Russia.
Il nostro interminabile viaggio termina nell’agosto del ’41 a Dnjepropetrovsk una grande città fra Ucraina e Russia. Dnjepropetrovsk era un centro terminale, lì c’erano parecchi quartieri adibiti a sedi di vari comandi anche di paesi diversi, tedeschi, ungheresi, romeni e croati.
Ci attestiamo sul fiume Dniepr e ai primi di ottobre del ’41 lo attraversiamo. I russi sono in ritirata, occupiamo il bacino carbonifero del Donetz. Ci sono state diverse e cruente battaglie, Stalino, Karkov, Rikovo, Gorlovka, Chazepetovka. I numeri, fra i morti, feriti, dispersi e congelati cominciavano ad essere alti.
Sono sempre stato in prima linea, davanti a me c’erano i fucilieri, poi i mitraglieri e poi noi con l’artiglieria, eravamo disposti sempre su tre file.
Ci sono anche ricordi piacevoli. Un giorno a Karkov mentre spostavamo il nostro cannoncino, questo mi rovinò addosso ferendomi non gravemente ad una gamba. Mi portarono all’ospedale e qui mi diedero due mesi di convalescenza e mi dissero inoltre che in ospedale non potevo stare, al reparto non potevo ritornare e che dovevo trovare una sistemazione presso dei civili. Chiesi così ospitalità ad una famiglia russa.
Presso questa famiglia mi trovai veramente bene e ho dei bei ricordi. Con la popolazione russa noi andavamo d’accordo, con i tedeschi era tutta un’altra storia, trattavano male tutti. Ho sempre avuto il desiderio di ritornare là e andare a trovare quella famiglia ma per vari motivi e a malincuore non ho mai fatto quel viaggio.
Poi sono rientrato al mio reparto e ci siamo schierati sul Don, era l’estate del 1942.
La situazione militare peggiorava, lo ricordo come adesso, alle 21 del 17 dicembre 1942 arriva un ordine preciso, ripiegare immediatamente, il fronte aveva ceduto e c’era il rischio di essere accerchiati.
Abbiamo iniziato il ripiegamento, la notte la temperatura scendeva fino a 40 sottozero. Non avevamo i vestiti e le scarpe adatte a quel clima ma da casa mi era arrivato un pacco con calze e maglie di lana tanto che distribuii qualcosa a qualche amico.
Era dura, dovevamo trainare il cannoncino e portarci le munizioni, in quelle condizioni era disumano. Lungo il percorso della ritirata vedevamo i grossi pezzi di artiglieria abbandonati, i 105, i 75, e noi lì a trainare e non sapevamo il perché. Abbiamo detto all’ufficiale che ci comandava che anche noi avremmo abbandonato tutto. L’ufficiale non disse niente, resi inutilizzabile il cannoncino buttando in un pozzo l’otturatore e la compagnia si sciolse.
Da quel giorno non vidi mai più quell’ufficiale. La ritirata è stata molto dura. Ho visto i romeni con il tifo petecchiale, pieni di pidocchi, non potevamo fare niente per loro, ne ho visti morire tantissimi. Un giorno sulla neve vedo un soldato con i piedi nudi e gli scarponi a tracolla. Mi avvicino e mi accorgo che era uno di Misano Monte, Tino da Plachèn, che conoscevo bene. Gli chiedo che cosa facesse così e lui mi rispose che voleva congelarsi e io per tutta risposta ‘a io dè nà zampeda te cul’, dicendogli che se si fosse congelato nessuno avrebbe potuto fare niente per lui. Si convinse e continuammo la marcia. Quando lo rividi, tornati a casa a Misano, mi disse ‘ancora um fà mel e cul’.
La mia ritirata durò 24 giorni, i russi ci avevano chiuso dentro una sacca. Per mangiare ci arrangiavamo. Quando arrivavamo nei paesini che incontravamo lungo la ritirata ci si metteva subito alla ricerca di cibo. Sapevamo come i russi nascondevano le loro scorte e i loro viveri, dentro i pozzi o in buchi sottoterra. Trovavamo spesso galline o altri animali insomma, ci si arrangiava, ma la fame era tanta.
Durante la ritirata avevamo perso il contatto con la colonna, eravamo in tre, sbandati e senza niente, avevamo fatto un’altra strada. Un giorno, in mezzo alla steppa innevata, vediamo un camioncino che si avvicina, sopra c’erano 4 o 5 russi. Ci puntano le armi e ci chiedono dove fossimo diretti; con la lingua russa me la cavavo bene, ero lì da due anni, rispondo che eravamo sbandati e che ci eravamo persi.
A quel punto anche noi diventammo dei prigionieri. Ci fecero salire sul camioncino e ci portarono in una casa li vicino. Ne uscì una ragazza e fummo consegnati a lei, ci trattarono bene e ci diedero anche da mangiare. Capìì dai colloqui che altri sbandati erano “imprigionati” in altre isbe ( le tipiche case della steppa) lì nei dintorni e che era ormai sera, sarebbero ripassati l’indomani mattina a raccogliere tutti, e se ne andarono.
Rimanemmo li, era già notte, sbandati e senza niente; con quaranta gradi sotto zero decidemmo di restate al caldo in quella isba.
Arrivò la mattina, ma non si vide nessuno, passò un altro giorno ma non si vedeva ancora nessuno.
Al quarto giorno, con nostra grande sorpresa, la ragazza ci chiamò e ci disse “Volete raggiungere i vostri, non sono molto lontani, da qui qualche chilometro, al di là di quelle colline c’è la vostra colonna in ritirata, se volete questa sera vi accompagno”. Ci siamo guardati in faccia, è bastato poco per capire che dovevamo andare.
La stessa sera siamo partiti, noi tre sbandati nelle mani di quella ragazza. Gli altri due bersaglieri che erano con me, erano da poco giunti in Russia e non conoscevano la lingua, solo io riuscivo a dialogare con la ragazza.
La rassicurai dicendogli che non gli avremmo fatto del male, e che doveva dire ai soldati russi che noi l’avevamo minacciata oppure che erano passati di li altri italiani che ci avevano liberato.
Dopo un lungo cammino nella neve arrivammo in cima ad una collina, la ragazza russa ci indicò la strada e ci disse che in un’ora di buon cammino avremmo raggiunto la nostra colonna.
A quel punto ci lasciammo, ma prima le chiesi se voleva venire con noi, lei mi rispose che se l’avessero presa sarebbe stata passata per le armi (fucilata) immediatamente.
Non so come facesse a sapere che lì passava la nostra colonna, era una ragazza intelligente, ci salutammo e sparì nel buio.
Dopo un’ora di cammino incontrammo la nostra colonna. Fu la nostra salvezza. E camminammo ancora.
Passarono alcuni giorni e la colonna incontrò la linea armata della sacca russa. Con noi c’era un reparto tedesco con dei corazzati ancora efficienti. Diedero battaglia e riuscirono ad aprirsi un varco, erano i primi giorni del gennaio ’44.
Non mi ricordo il nome del paese, ma dopo la battaglia c’era morte e distruzione dappertutto.
Quella notte stessa ci dissero che potevamo stare tranquilli, eravamo fuori dalla sacca, ma quella notte non era finita. Il paese era completamente distrutto, e non c’era niente per ripararsi dal freddo terribile dell’inverno russo, con 40 gradi sottozero in quelle condizioni all’aperto non ne saremmo usciti vivi. Decidemmo allora di prendere i vestiti dei russi morti, giacche, maglie, berretti e stivali, per noi sarebbe stata la vita. In quel paese erano morti tutti.
Dopo qualche giorno ci portarono indietro nuovamente a Dnjepropetrovsk, li potevamo mangiare e riposarci. Io avevo anche un congelamento di 1° e 2° grado.
Ci fecero salire sui treni, non sapevamo nulla della destinazione non ci dissero niente e ci portarono in Polonia. In una stazioncina vedemmo un soldato italiano pulito e ben vestito, noi laceri e pieni di pidocchi. Gli chiedemmo dove ci stessero portando, disse: “Come non lo sapete? in Italia”.
di Cesare Bagli