Quando il Natale arriva fuori, nelle strade e nelle vetrine? non è uguale a quello che arriva dentro. Dentro di noi arriva quello dei ricordi. Soprattutto i ricordi dell’infanzia dove il Natale si colloca con una struggente dolcezza, direttamente proporzionale agli anni che ci separano dal tempo in cui siamo stati bambini. Per cui più quel tempo è lontano e più lo idealizziamo nel nostro cuore dal quale annualmente ritiriamo fuori il prezioso scrigno di ‘quelle’ immagini, ‘quelle’ musiche, ‘quelle’ poesie, ‘quelle’ lettere piene di brillantini e ‘quei’ profumi particolari. Così il kit natalizio della memoria si dispone a essere rimontato per il consueto magico allestimento.
Le immagini e i suoni di quel ‘tempo perduto’ sono più facili da registrare e da conservare, anche meccanicamente. Gli odori e sapori invece, si basano solo sulla memoria sensoriale di ciascuno. Ma anche nella memoria collettiva della nostra città, un particolare profumo di Natale ritorna puntualmente.
Il Natale cattolichino, ormai da secoli, non può prescindere da due speciali odori che promanano dalle case durante queste feste: l’odore del miacetto e quello dei cappelletti in brodo. E’ vero che oggi il miacetto, molte donne ormai lo comprano già pronto perché (dicono) non hanno assolutamente il tempo di prepararlo, però così si privano di due piaceri: quello di inondare la casa di un delizioso aroma di agrumi e frutta secca tostata e quello di far partecipare i familiari al rituale della preparazione: chi taglia la scorza di limone e arance, chi schiaccia le noci, chi trita le mandorle, chi lava l’uvetta? I bambini si divertono poi tanto a fare gli aiuto-cuochi. Però il profumo di Natale che si avverte nel miacetto lo si sente comunque quando lo si avvicina alla bocca. E prima di mangiarlo, uno strano odore d’oriente ci entra nel naso e ci dice: “E’ ancora Natale!”.
Il miacetto, essendo un dolce senza grassi animali, si poteva consumare anche durante la vigilia che imponeva (una volta) una stretta osservanza della precettistica religiosa con un menù “di magro”. Mangiare carne la vigilia, equivaleva ad un vero sacrilegio che nessuno, nemmeno gli atei del buon tempo antico, si sognavano di commettere. Le loro donne, come tutte le altre, la vigilia di Natale preparavano minestra con i ceci e baccalà con le patate. Le alternative erano tonno e uova con insalata.
Un altro rito della vigilia, rimasto fino agli anni ’60, era quello di andare al forno a cuocere il ciambellone che era comunque il dolce per eccellenza di tutte le feste: Pasqua, Natale, comunioni e matrimoni. Il ciambellone si aggiungeva al miacetto e alla pagnotta pasquale oppure accompagnava una semplice festa in famiglia. Era segno di un giorno speciale o dell’accoglienza di un ospite. Nei giorni delle vigilie delle due principali festività, i fornai mettevano allora a disposizione delle donne del paese, i loro tavoli da lavoro e i loro forni per preparare e cuocere i dolci delle feste.
Sotto Natale era tutto un profumo di miacetti e ciambelloni. Per riconoscerli si mettevano sporgenti sotto l’impasto, bigliettini di carta gialla dove erano scritti i nomi delle cuoche che aspettavano trepidanti la cottura dei dolci nella speranza che i propri uscissero meglio degli altri nel confronto finale. Nel qual caso tutte le altre donne ne avrebbero chiesto il segreto.
Chi non ricorda per il pranzo di Natale, il penetrante profumo dei cappelletti in brodo che avvolgeva tutta la casa mentre i bambini aspettavano ansiosi l’apertura della bella letterina piena di brillantini messa sotto il piatto del babbo? Oh, lui fingeva sempre di stupirsi di quel piatto rovesciato sulla busta e aprendola diceva immancabilmente: “Ma chi sarà?” E noi ad incalzare: “Leggila!” E dopo la lettura elargiva all’autore quella benedetta mancia che permetteva di andare al cinema in ogni giorno di festa e spese pazze al carrettino di Anto. Una vera pacchia.
Poi c’era lo scambio degli auguri e il pranzo di Natale aveva inizio mentre il profumo di brodo inalava di beatitudine i polmoni.
Ai cappelletti seguivano il bollito misto con mostarda e spinaci al burro, cotechino con purè e pollo a pezzi rosolato nel tegame con patate al forno. A fine pranzo, mentre si apriva il panettone Motta e sulla tavola arrivavano anche, miacetto, ciambellone e torrone, al figlio più piccolo toccava recitare la poesia: “Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne?”. Il babbo apriva una bottiglia di Asti a suggellare la festa e mentre i bambini affondavano il viso nella fetta di panettone, inebriandosi di quel profumo misto a canditi, già si accordavano con sguardi d’intesa per uscire di casa al più presto a spendere ‘quei pochi soldi di felicità’.
di Wilma Galluzzi