– Avendo pubblicamente cercato di dimostrare quanta infelicità abbia contribuito a combattere Cesare Beccaria, il nonno materno di Alessandro Manzoni, con il suo libro contro pena di morte e tortura, ed avendo individuato nel Settecento illuministico il secolo vivificato dai suoi due ideali dominanti, la felicità e l’eguaglianza, ci sentiamo chiedere dal “gruppo di ascolto” della “Piazza” in quale modo potremmo applicare al nostro tempo, a cominciare dal 2005, gli stessi criteri, e di conseguenza augurare “felicità” umana. Ci proviamo.
E partiremmo, anche in questo caso, dal diritto penale, per auspicare che possano ottenere quanto prima il risarcimento al quale hanno diritto le famiglie dei lavoratori letteralmente assassinati in varie regioni italiane dalle lavorazioni inquinanti. Lo lascia sperare la sentenza veneziana di appello (fortemente voluta dal benemerito pm Felice Casson) con la quale, il 15 dicembre scorso, sono stati condannati i dirigenti del Petrolchimico di Mestre, responsabili di avere causato la morte per cancro di 157 operai, costretti ad affrontare una concentrazione di piombo 2091 volte superiore al lecito.
In una circolare del 1977 quei dirigenti industriali avevano affermato che, avendo l’impresa “come fine il profitto”, era inutile esagerare con le precauzioni: “bisogna correre dei ragionevoli rischi”. Essi incarnavano, purtroppo, lo spirito del tempo: l’importante essere il far soldi. Viva Mammona, abbasso Gesù.
E’ l’ideale dell’attuale maggioranza: più mercato, meno Stato. Stato significa anche potere giudiziario indipendente e autonomo, e ne è qualcosa, per esempio, la legge di accorciamento dei tempi di prescrizione congegnata per salvare Cesare Previti, non si faranno più né il processo di appello a Previti (condannato in prima istanza a 16 anni per corruzione in atti giudiziari per i casi Imi-Sir, Lodo Mondatori e Squillante) (“Corriere della Sera”, 16 dicembre 2004).
Dello Stato (inteso come pubblici poteri: Parlamento, governo, Regioni, Province, Comuni) hanno bisogno, si sa, solo le fasce più deboli della società: anziani poveri e non autosufficienti, operai cinquantenni rimasti senza lavoro, disoccupati e sottoccupati, padri di figli capaci e meritevoli impossibilitati a far loro proseguire gli studi, giovani laureati in cerca di occupazione ecc.
Con questa ultima categoria noi siamo, per ragioni professionali, quotidianamente in contatto, e possiamo garantire che la loro è una condizione disperata. Riesce difficile ai riminesi rendersene conto, perché dalle nostre parti nessuno resta disoccupato durante la stagione estiva. Ma possiamo assicurare che quei giovani non possono costruire il loro avvenire a causa della precarietà dei posti di lavoro che di volta in volta ottengono, quando li ottengono.
La terza rivoluzione industriale, si sa, richiede flessibilità. Ma per loro, flessibilità significa discontinuità, impossibilità di ottenere prestiti bancari e così via, per non parlare di una futura pensione di vecchiaia, alla quale non pensano più. La legge Biagi è servita soltanto come orpello di una classe dirigente indegna che, dopo avere negato al giuslavorista bolognese la doverosa protezione, ne ha sfruttato il nome e basta.
Che cosa augurare, in questo caso? Evidentemente, un minimo di programmazione economica all’insegna del motto: tanto Stato e tanto mercato quanti necessitano al benessere generale. Ossia, poi, massicci investimenti nella formazione e nella ricerca. In quest’ultima molti di loro potrebbero trovare proficuamente occupazione, a beneficio della tanto invocata competitività italiana a livello internazionale.
Ma a chi rivolgere tale augurio e siffatta speranza? Da una parte chi ci governa pensa solo a fare leggi ad personam (compresa l’abolizione totale dell’imposta di successione), dall’altra i partiti della minoranza parlamentare dedicano le loro energie non al bene comune, bensì alla concimazione dei loro orticelli elettorali e non fanno che accapigliarsi.
Non resta che sperare in un nuovo intervento polemico di Nanni Moretti, che con una frustata costringa il cavallo a correre sotto la pressione della società civile. Esattamente come ha fatto a Cattolica il movimento dell’Arcobaleno. Non vediamo altra possibilità per un “settecentesco” auspicio felicitarlo. Sarebbe poca cosa? Spiacenti, ma non possiamo spingerci oltre.
di Alessandro Roveri
*Professore di Storia contemporanea all’Università di Ferrara