LA BUONA TAVOLA
– Una mano in cucina fa la differenza. Non solo nel senso dell’aiuto, ma soprattutto nel senso che ognuno ha la propria… “mano”. Essa consiste sì in una manualità tout court, ma anche in particolari sensibilità ben sviluppate come l’occhio clinico, il gusto e l’olfatto. Per non parlare poi di tutto quel vissuto personale che si mobilita quando ci si appresta a cucinare. Il combinarsi equilibrato di tutte queste caratteristiche determina quella che in cucina si definisce una “mano buona”. Per questo chi sa di averla, generalmente diffida di improvvisate “mani” che si offrono come “aiuto” per approntare piatti impegnativi.
Proporsi ingenuamente di dare una mano in cucina a un grande chef, senza conoscerne le esigenze e senza che egli conosca la “mano” di chi si offre di aiutarlo, è quasi impossibile. Se lo chef non è disperato, (ma se è bravo è anche un ottimo organizzatore del lavoro), preferirà fare da solo piuttosto che rischiare di rifare tutto da capo, avendo (l’aiutante) sprecato una linea di preparazione. Se non si tagliano pomodori e funghi come dice lui, ne occorreranno il doppio. Per questo lo chef ama istruire personalmente la propria brigata di cucina e l’aiutante esterno può al massimo pelare le patate e pulire l’insalata. E’ anche vero che per imparare ci vuole sempre una buona dose di umiltà che i maestri della cucina apprezzano molto nei loro discepoli.
Vissani, che per esigenze di spettacolo è costretto a farsi “aiutare” dalle quattro belline di turno di Uno mattina, spesso si spazientisce e le rimbrotta perché quelle, interessate solo ad amoreggiare con la telecamera, non eseguono a puntino le sue disposizioni. E’ chiaro che preferirebbe fare da solo, farebbe prima e meglio. Per lui e per molti altri, la cucina è una cosa seria e attiene a delle regole che, Tv o non Tv, vanno rispettate.
Ci sono persone negate per cucinare. Ce ne sono molte che si arrangiano. Molte di valore medio e medio-alto. Abbastanza numerose quelle dotate di una mano buona. Poche quelle dotate del tocco dell’artista. E così un certo piatto: per alcuni può essere molto buono e per altri mediocre. Dipende dalle attese e dalle abitudini. Però se un cibo è oggettivamente molto buono perché preparato da mani sapienti, tutti lo possono constatare. A meno che non ci sia un’avversione naturale verso certi alimenti come fegato, lumache, tartufo, ostriche, ecc.
Chi in pasticceria è cultore del diplomatico, dopo avere provato quello di Staccoli, a temperatura ambiente (non freddo di frigo), difficilmente si rassegnerà alle presunte imitazioni. Il segreto, oltre che nella sfoglia sottilissima che racchiude il pan di Spagna aromatizzato, è nella sua crema al burro, unica al mondo, che si tramanda da generazioni. Lo scettro delle creme necessita di “mani buone” e di gelosi segreti. La perfezione non è da tutti. Fino a una trentina di anni fa, sulla Panoramica, nel ristorante Vigna del Mar si mangiavano degli straordinari maccheroncini ai 4 formaggi e pomodoro che nessuno poi, cambiata la gestione, purtroppo ha saputo più replicare nonostante i tentativi e l’arrivo di preparati industriali di grande qualità. La mano e la storia sono cambiate, e così i maccheroncini.
Altrettanto inimitabili i tagliolini al profumo di mare di Lampara e Posillipo. Circa 40 anni fa, la Fiorina se ne uscì con questo capolavoro di tagliolini finissimi tirati al matterello, cotti e conditi in un’armonia di sapori impareggiabili. I figli Franco e Massimo ne hanno saputo, fortunatamente, perpetuare la “mano”. Da quasi 20 anni si rimpiange anche il superbo filetto alla Voronoff che così speciale, flambato magistralmente a tavola, solo da Conti a Riccione si mangiava. Cambiato lo chef, cambiato il filetto. Mitici gli spiedini della Betta del ristorante Marittimo, del cui fuocone esterno ancora si favoleggia, accompagnati dalla sua caratteristica bruschetta servita anche con il delizioso tegame di guazzetto (“caminetto”). Per fortuna il figlio Giancarlo con la moglie Valeria, ne hanno raccolto i segreti e la “mano buona” è continuata.
Che dire poi delle favolose tagliatelle (fatte veramente in casa), al sugo o ai piselli, del ristorante Da Antonio? Sono una vera istituzione per Cattolica: consolidano oltre 70 anni di cucina casalinga iniziata da nonna Zaira. La “mano buona” è continuata, ma un pericolo incombe: Piergiorgio vorrebbe vendere il locale! Affrettatevi a mangiare le ultime tagliatelle e proponetegli una “cooperativa dei clienti” per mantenere questo monumento storico della cucina. (Si spera che ci ripensi).
L’arte culinaria è conservazione di un patrimonio gastronomico-culturale ma anche innovazione personale, quel “plus” di creativo che modifica in meglio o in modo alternativo la tradizione codificata. L’Artusi si definiva modestamente un “dilettante”, avendo fatto per una vita il banchiere e iniziando solo dopo i 60 anni a interessarsi alla raccolta di quel materiale che andrà, un decennio dopo, a costituire la “bibbia” della cucina italiana. Egli incitava i suoi lettori a provare ad eseguire quei piatti che “giungerete a farli bene e potrete anche migliorarli”.
In ogni casa, come nei ristoranti, si continua a trasmettere ricette e insegnamenti affinché certi piatti continuino a testimoniare storie. Storie di famiglia, storie di vita, storie di paese. Storie di un passato diverso individualmente, ma reso comune da uno stesso luogo e da una stessa cultura. I momenti più belli della vita si celebrano sempre anche a tavola perché la convivialità è un elemento fondamentale della dimensione sociale e affettiva di qualunque persona. Ognuno di noi conserva ricordi indelebili legati al cibo e a quelle mani che lo avevano preparato.
A Proust il sapore delle “madleine” ricordava le sue visite da bambino alla zia. A Garcia Marquez, l’odore amaro delle mandorle, evocava storie di amori contrastati. ( Ma lì non c’era un cuoco). Tonino Guerra invece sentenzia: “Continuiamo a mangiare l’infanzia nei piatti della mamma”. Giovanni Pascoli dedica un poemetto alla piada e ricorda quando lui cuoceva quella preparata dalla sorella Maria: “Io, la giro, e le attizzo con le molle / il fuoco sotto, fin che stride invasa / dal calor mite, e si rigonfia in bolle: / e l’odore del pane empie la casa. …il pane della povertà /…il pane dell’umanità… / poi si partisce in forma di croce… / nelle più soavi ore del giorno”. Un vero rito sacro che solennizza, alla sera, dopo il lavoro, il ricongiungimento di tutta la famiglia. Un ritrovarsi atteso e desiderato. Come sempre, davanti ad un buon piatto, preparato da mani giuste, si condivide la magia di una storia che affratella.
di Wilma Galluzzi