– Il dottor Guido Paolucci è oncologo dei bambini di spessore mondiale. E’ il direttore della clinica pediatrica del Sant’Orsola di Bologna. Ha 73 anni e tre figli. I genitori hanno fatto molto per lui: due occhi azzurri, un bel cuore e la passione per la vita. Il babbo era pediatra; gli avi farmacisti ed il nonno Cino Mancini (al quale è dedicata una delle strade principali della città) fu il primo sindaco di Cattolica ed autore di un decalogo per bambini. Liceo a Rimini, con bei ricordi legati ai viaggi in treno ed a qualche giovane turista a prendere il sole lungo i binari nella primavera avanzata. Non è diventato ricco con la professione, perché doveva pensare agli ammalati. L’intervista è stata raccolta nella Cattolica del porto: prima un tuffo con i marinai al bar Anmi e poi ospiti dei signori Giancarlo e Valeria Venturini, al ristorante “Oh capitano, mio capitano”.
Perché ha fatto il medico?
“Mio padre era medico; mio nonno farmacista. Forse oltre alle ragioni familiari ce n’erano altre meno evidenti che vedo adesso, a distanza di anni. Ragioni che avevano a che fare con l’umanità della professione: fare qualcosa per aiutare il prossimo. Fare il professore universitario significa essenzialmente insegnare qualcosa agli altri”.
Perché ha scelto i bambini?
“Mio padre era pediatra, forse era logico. In realtà era per aiutare gli esseri più deboli, come lo sono i bambini ammalati”.
Che cosa significa avere a che fare con il male?
“Ti rende sicuramente più forte. Ed aiuta il medico ad eliminare il disturbo, a riportare il paziente alla normalità. Se non ci fosse il male verrebbero meno la maggior parte delle motivazioni dietro le scelte”.
Qual è il momento più drammatico in un intervento?
“Di chirurgo non ho esperienze dirette. Nelle procedure è quando devi fare un intervento cardiaco. In caso di arresto del cuore, lo trafiggi con un ago. Ricordo quando il figlio di un amico medico ebbe un arresto cardiaco dopo un intervento banale di tonsille. Io ed il babbo dopo l’operazione siamo in camera. Gli anestesisti non c’erano più; il babbo che mi dice di fare qualcosa. Avevo solo la siringa. Ci metto l’adrenalina, la infilo nel cuore e veder riprendere la vita con un gesto semplice ha del miracoloso. Il ragazzo aveva 15 anni; ora quando viene a Bologna passa per un saluto. Invece, come atto medico ci sono le cure, non vedi nell’immediato il risultato”.
Chi è il bravo dottore?
“E’ colui che riesce a mettersi nei panni del paziente. Tutto il resto è nulla. E più c’è empatia, consapevolezza del problema dell’altro e più riesci a capire ed a guarire. Si cura il fisico e la psiche. E se non aiuti la mente, non serve”.
Qual è la sua statistica?
“Dieci anni fa tagliammo il traguardo dei 1.000 ammalati guariti. Si dice guarito quando non ricade più nella malattia 5 anni dopo le cure. Quello fu un traguardo importante per il mio gruppo. Nel ’67, quando ho iniziato a curare i bambini, morivano il 95 per cento dei pazienti; oggi, guariscono l’85 per cento”.
Che cosa manca alla medicina italiana?
“I soldi e li abbiamo anche male investiti. E poi, secondo me, in molte specializzazioni manca l’empatia tra medico e paziente. C’è poca consapevolezza che la malattia è un prodotto di un equilibrio psicologico. La fortuna della medicina alternativa, naturale, dei guaritori è dovuta al fatto che al centro viene messo l’uomo”.
Qual è stato il gesto più commovente che ha ricevuto?
“L’anno scorso, in novembre, dal presidente della Repubblica Ciampi. Ci sono andato con un malato guarito. Durante il viaggio mi ha raccontato com’era nata la malattia. Ricordava le mie frasi, i miei atteggiamenti. Per me naturali, ma per lui importanti. Aveva 37 anni, al momento del male 15: gli avevo lasciato una traccia indelebile nella sua mente”.
Che cosa fa per aggiornarsi?
“Leggo. Internet è una miniera semplice, esaustiva a Cattolica ho una enorme biblioteca, con gran parte dei libri. Con le parole chiave su Internet si trova tutto. Per il medico è un bene ed anche un male. Per il fatto che le informazioni sono a disposizione, c’è bisogno che il medico sia più esperto. Spesso il paziente del proprio male sa molto. Quando non sapevo non baravo. Dicevo che la medicina era arrivata fino a qui ed che io non ero un mago e che insieme si poteva cercare la strada migliore. Bisogna saper smontare dall’aurea di superiorità”.
Che cosa si aspetta dal futuro?
“Una medicina migliore, più a misura d’uomo: che raccolga quello che molti seminano”.
Qual è il suo rapporto con Cattolica?
“Le voglio bene; voglio che accolga il mio nuovo libro sulla storia della città come un regalo. La amo al punto di non vederne i difetti. Come in tutti gli innamorati, c’è una punta di follia”.
Qual è la sua idea di esistenza?
“Non credo che tutto finisca. L’estrazione cattolica mi dà una ragione per pensare che ci sia un qualcosa che continua: non so dove, non so come. E’ un atto di fede, ma come uomo di scienza mi tutelo. Con le opere voglio lasciare qualcosa che mi ricordi: il metodo, gli allievi, i pazienti guariti, le lezioni. Nel campo locale ci sono i libri. Quindi due motivi: fideistico e quello che ho lasciato”.
Come si concilia la conoscenza scientifica con la fede?
“Un uomo di scienze non si dà risposte. Quello di fede si fa meno domande che può. Si concilia male con Galileo diceva che una cosa è vera se si riproduce”.
La fede può essere dovuta alla debolezza umana?
“Non c’è dubbio. Chi ce l’ha è fortunato”.
Come vorrebbe essere ricordato?
“Ha vissuto come voleva”.