– La strada che seguo si stacca dalla Statale vecchia all’altezza di Pianventena, passa sotto la nuova circonvallazione, e si confonde tra rami attraverso una sterrata quasi preoccupante, dove arriverà?
Proprio oltre il confine tra San Giovanni e Morciano, che se non lo sai non ci arrivi per caso.
Giungo a casa Magnani verso le 10.30, è una bella mattinata di giugno, e questo sembra il luogo perfetto dove trascorrere dei momenti sganciati dalla morsa dell’afa incombente.
La sua casa è il suo mulino, e viceversa. Il signor Magnani mi accoglie uscendo dal suo giardino, da sopra un ponticello che permette di attraversare il fossato, ora quasi secco, che porta acqua alle pale, ed energia alle macine. Passo meravigliato tra le anatre che starnazzano con la prole in fila, e mi chiedo dove sia cominciato il viaggio, e dove potrebbe finire. Mi rispondo: qualche centinaio di metri più in là, all’incrocio con la Nuova Statale, che bypassa, immuni per fortuna, i silenzio grazie a dio.
Magnani ha 63 anni, di professione autotrasportatore, vive con la moglie Anna in uno degli edifici più antichi e suggestivi della Valconca. Circa 15 anni fa ha acquistato infatti quello che, nei Catasti Pontifici dell’800, era noto come mulino Santa Lucia, dal signor Gino Balzi, il vecchio mugnaio. Giuliano mi assicura: “fino a 15 anni fa il mulino funzionava a pieno regime, ora per gran parte dell’anno non c’è acqua, ma potrebbe essere ancora attivo”.
Mi fa visitare la casa, ora restaurata: mi mostra i quadri con foto d’epoca, in una è un vecchio seduto sui gradini proprio di casa Magnani: “Questo è il mugnaio, il vecchio proprietario”, mi dice.
Scendiamo ai vani inferiori, quelli adibiti alla macina del grano e del frumento. C’è una stalla di sosta, dove chi veniva per farsi macinare il grano poteva passare la notte, in attesa che l’operazione si compisse, mi spiega: “Era una cosa lunga, di acqua qui ce n’è sempre stata poca. Ci sono le due macine, collegate alle pile sistemate immediatamente sotto le volte che coprono il canale, mosse da complicità dell’acqua e di 16 pale. C’è una pila che metteva in funzione la segheria idrualica, un carrello annesso, che correva lungo binari; ci sono gli innumerevoli oggetti di antiquariato contadino, sistemati in ogni angolo; c’è protagonista una palpabile passione per le cose antiche, originali.
“Se le cose sono fatte in un certo modo, non le si può cambiare. Le puoi sistemare, senza rovinarle, o far nuove, ma sempre alla maniera in cui si facevano in questi posti”, mi spiega Giuliano, facendo trasparire l’intenso sentimento per l’antico mestiere.
La costruzione risale almeno al 1400, prima attestazione della struttura. I muri sono di enorme spessore e assicurano fresco e isolamento termico, efficace proprio al modo delle case “costruite bene”. “Non c’è una crepa da nessuna parte”, mi dice ancora il signor Magnani esaltando la robustezza (peraltro bene evidente) dell’edificio. Mi mostra il funzionamento degli ingranaggi, come l’energia, dalle pale, si trasferisce alle macine e ne esce farina. Oppure la segheria idraulica, mossa da una pila ulteriore, e lunghi cinghioni per la trasmissione del moto. Mi mostra i setacci e il “buratt”, attrezzi e macchinari per raffinare la farina.
Mi guardo attorno meravigliato ancora dopo il terzo giro dell’edificio. “Ti faccio fotografare le pile di sotto”, mi dice porgendomi un paio di stivali di due numeri più piccoli del mio. “C’è anche una macina del ‘500, io ti porto una luce da di sopra”. E così mi trovo nel canale, per mia fortuna (non certo del mulino) quasi secco. Mi faccio largo tra le zanzare, e mi infilo sotto la volta. Qualche metro e sono vicino alle pile, origine dell’energia. Grazie alla luce che Giuliano mi cala dalla botola, riesco a scorgere le pale, che emergono dal buio pesto, la macina, a pezzi, sul fondo basso del canale. Porta ancora i segni dell’usura, del lavoro, che rende magico questo mio starmene qua, inebetito, con la melma alla caviglia ad osservare pietre tonde sbeccate. Ma è la misteriosa attrazione verso gli uomini e di ciò che avito abita negli strumenti e negli attrezzi di una vita, di centinaia di vite prima della nostra, che passarono e lasciarono il segno sul legno, sulla pietra, sul ferro. E su chi questi pezzi di vita li raccoglie e li conserva? Beh, rimane una felicità contagiosa, una allegra giovinezza, che ho scorto sul volto sorridente del signor Magnani”.
di Matteo Marini