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Home Località Gabicce Mare

Vita di quotidiana miseria

Redazione di Redazione
7 Novembre 2005
in Gabicce Mare
Tempo di lettura : 3 minuti necessari
A A

[img align=left]http://www.lapiazza.rn.it/novembre05/amarcord_1.jpg[/img]

Gabicce Monte, primi anni 30. In alto a sinistra: Caterina Morini. In basso a sinistra: Gasperi (Grisa). Al centro (bimba con le mani sulla bocca): Erichetta Morini. Ultima a destra: Lina Gasperi.
(Archivio Fotografico Centro Culturale Polivalente di Cattolica)

La vita nel paese di Gabicce Monte era molto dura, c’era poco da mangiare e non c’erano soldi. Il piatto che si mangiava più spesso era la polenta e la cosiddetta pinza, caratteristico tipo di pane dalla forma ovale fatto con farina di granoturco, anici e finocchio selvatico, mescolato con una minima quantità di farina di grano, perché era molto costosa. Anche per fare la piada se ne usava in piccole quantità. Per riscaldarsi durante la stagione invernale si andava in giro a sottrarre la legna alle famiglie più benestanti, mio padre addirittura bruciò una specie di cassapanca (matra) che avevamo in cucina. Ricordo che mi copriva il letto con le reti da pesca, le coperte non erano sufficienti e quando si dormiva cadeva la neve sul viso perché il tetto era tutto sconnesso e pieno di fessure. Questa è stata l’infanzia di noi ragazzi.
Le donne lasciavano i loro neonati soli, avvolti nelle fasce e andavano a lavorare nei campi, solo al ritorno provvedevano al cambio e alle altre necessità. La sera si andava un poco all’osteria per bere un quartino di vino che non veniva pagato. L’oste annotava nell’apposito libro e si pagava poi la domenica quando si facevano i conti delle pescate.
Nelle lunghe serate invernali, quando era brutto tempo e non si andava in mare, ci si recava presso alcune famiglie a fare la veglia (vegia) anziché andare all’osteria ed evitare così di spendere i pochi soldi che si avevano. Durante la veglia si facevano burle, scherzi, si raccontavano barzellette e altre storie per cercare un momento di allegria e dimenticare per qualche ora la miseria quotidiana. Le strade di Gabicce Monte erano lastricate di gusci di vongole (coc-le d’puracc) poiché quando si mangiavano, i gusci venivano buttati fuori sulla strada, poi camminando si pestavano e così si formava una specie di asfaltatura.
Un tempo a Gabicce Monte c’era l’acquedotto comunale, lo si può vedere in qualche cartolina d’epoca, proprio dove ora c’è l’ufficio del Parco San Bartolo. Di fronte vi era il negozio di generi alimentari di Giulio Gasperi, sulla sinistra (entrando in paese) c’era lo spaccio e l’osteria di Diamantini. A Gabicce Monte c’era la sede municipale, in quanto Gabicce Mare era solo un piccolo borgo di poche case. Vi era anche la scuola elementare, dove per un certo periodo insegnò la giovane maestra Irma Giovannini la cui famiglia era proprietaria di terreni.
Sempre prima di entrare in paese, sulla sommità della vecchia strada che conduceva in centro, c’era la casa della famiglia Bertuccioli (Barbarèl) e sulla destra quella dei mezzadri Gaièn; la famiglia Pratelli abitava invece nell’area sottostante l’attuale Eden Rock e si affacciava sulla veduta di Vallugola. Dove ora sorge l’Eden Rock vi erano i resti delle antiche mura di cinta del paese costruite in pozzolana e la loro presenza è rimasta fin dopo il fronte, a testimoniare la sede abitativa di una contessa di Gradara di cui non ricordo il nome. Da bambino sentivo raccontare che in cima al paese di Gabicce Monte sorgeva una rocca-castello chiamata Castrum Ligabitij che dava il nome al piccolo centro.
Agli inizi degli anni ’40 il comune fu trasferito a Gabicce Mare, che nel frattempo si era notevolmente sviluppato turisticamente e la sede provvisoria fu ubicata dove ora c’è il Bar Calipso, nell’abitazione di Adamo Bertuccioli (Barbarèl). In seguito il trasferimento della sede comunale dove si trova attualmente, sul terreno di Deperini di Case Badioli che lo acquistò dall’Irap di Pesaro per costruire degli appartamenti. Aveva già gettato le fondamenta prima che il terreno gli venisse espropriato.

a cura di Dorigo Vanzolini e Sebastiano Mascilongo

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