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“Dopo tanti mesi di guerra i sommergibili italiani erano stati in gran parte affondati. Noi eravamo un equipaggio che componeva una squadra di quattro sommergibili: il “Platino” cioé il nostro, il “Nichelio”, il “Cobalto” e “l’Acciaio”. Giunti in Sicilia alle due del pomeriggio, affondammo un piroscafo anglo-americano, mentre ci si preparava alle operazioni di sbarco.
La cucina a bordo del “Platino” consisteva in un pasto uguale per tutti, sia per il comandante che per i marinai. Il cibo non mancava, c’erano approvvigionamenti di latte, gallette, in gran parte conservate per ulteriore bisogno. Ricordo che ci voleva il martello per romperle, soprattutto si faceva uso abbondante di viveri in scatola. Era una vita fatta anche di sopportazioni per le miserie quotidiane dalla cuccetta, un giacilio per due persone da adoperarsi a turno. Solo il comandante aveva una cuccetta tutta per se. Fino a quattordici/quindici ore di immersione si resisteva, dopo iniziava l’emissione di ossigeno che ridava un po’ di benessere e lucidità. Quando si risaliva in superficie il nostromo aveva il compito di aprire lo sportello con particolare precauzione, facendo prima fuoriuscire lentamente l’aria presente all’interno, altrimenti con l’apertura improvvisa per la forte pressione, lo stesso portello sarebbe volato via. Possiamo immaginare questo fenomeno come l’effetto di una pentola a pressione, una volta in superficie si faceva un’ispezione di tutti i locali, facendo uscire l’anidride carbonica accumulata e cambiata con aria fresca naturale.
Avvistando il nemico si effettuava la manovra “rapida” e in ventisette/ventotto secondi eravamo a quaranta metri di profondità. I quattro marinai che si trovavano in plancia non scendevano per gli scalini, ma si gettavano uno sopra l’altro e subito dopo avveniva la “rapida”, a quaranta/cinquanta metri di profondità, con conseguente operazione di assetto fino a toccare punte di oltre cento metri. I nostri sommergibili erano collaudati fino agli ottanta metri, mi ricordo che durante un’operazione (1943) ci spingemmo fino a 146 metri con la manovra “rapida”, poiché in superficie vi erano due cacciasommergibili che ci stavano bombardando. Sapevano che i nostri “battelli” erano di piccole dimensioni e quindi regolavano le loro bombe per l’esplosione a settanta/ottanta metri di profondità.
Noi che ci trovavamo ad una profondità maggiore non avvertimmo nulla, restammo in immersione per quarantotto ore con l’ausilio dell’ossigeno, eravamo tutti in camera di manovre insieme con il comandante Patrelli. Alcuni di noi sentirono maggiormente gli effetti della pressione del mare che andava a comprimere come una morsa letale le lamiere dello scafo, con il rischio di farle saltare. Per questo motivo cedettero loro le gambe e furono costretti a rimanere in ginocchio, mentre i topi avvelenati dal monossido di carbonio accumulatosi negli strati più bassi delle sentine morivano tra i nostri piedi. In queste particolari circostanze avevamo anche delle particolari bevande che ci davano nuovo vigore ed euforia.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 in occasione di una mia licenza, il comandante mi disse: “Guarda che con la licenza puoi arrivare fino a Senigallia, oltre ci sarà il posto di blocco”. Arrivato a Senigallia infatti non potei proseguire, andai presso la caserma della flottiglia Mas dove mi consigliarono di andare in Ancona, la strada che viene giù da Chiaravalle era attraversata da camion diretti a Morciano e a Forlì carichi di grano. Così la mattina successiva incontro un camionista diretto dalle parti di Cattolica; ma prima di salire con lui dovetti togliermi il vestito da militare per timore di controlli al posto di blocco. Poi con successivi mezzi di fortuna arrivai a Case Badioli e quindi arrivai a casa. Il pane era razionato e si acquistava mediante “bollini” con la carta annonaria.
Mi trovavo a casa da quattro/cinque giorni quando incontrai Virgilio Ercoles di Cattolica, il quale mi disse: “Sei in licenza ma é pericoloso, c’é il rischio che la polizia venga a prelevarti!” (infatti la mia licenza era valida fino a Senigallia). Mia mamma non essendo al corrente della mia situazione, in un momento di estrema necessità, prese la mia licenza nel cassetto per andare nel municipio di Cattolica a farsi fare la carta annonaria per l’acquisto del pane, al che l’impiegato disse: “Come é venuto questo ragazzo qua? Domani mattina deve venire subito in divisa qui in comune!”, gli disse Dante Terenzi interprete dei militari di occupazione.
Quando mia madre tornò a casa la rimproverai dicendo che ormai non potevo più restare a casa. La mattina seguente infatti andai in municipio dove ebbi disapprovazione per la mia condotta. Perciò avevo due scelte, ritornare al mio comando o rischiare di finire in un campo di concentramento. Io partì su loro diretta informazione da Ancona con un piroscafo alla volta di Brindisi, dove ritornai con il mio equipaggio. Per l’accaduto fui ripreso dal mio comandante che data la sua esperienza, mi aveva messo in guardia sul pericolo che avrei corso andando in licenza”. (Continua)
a cura di Dorigo Vanzolini e Sebastiano Mascilongo