Nelle scuole governative, poche, mal attrezzate, con personale spesso impreparato e numericamente scarso l’indio viene trattato paternalisticamente, quando è fortunato, o preso in giro e addirittura picchiato dagli stessi maestri che lo considerano inferiore rispetto al bianco o al meticcio. Gli insegnanti vanno con una certa frequenza a scuola ubriachi, non parlano le lingue dei loro alunni (tzeltal, tzotzil, tojolabal ecc.), e pretendono di imporre lo spagnolo come unico idioma accettabile. D’altronde, oltre che carnefici, i docenti stessi sono spesso vittime di un sistema che negli Stati periferici della repubblica messicana non funziona: mal pagati e per niente incentivati, sono costretti a lavorare in villaggi della Selva Lacandona difficilmente raggiungibili, data l’assenza di un’adeguata rete di trasporti. Infine, come se non bastasse, i programmi federali e statali non tengono conto della cultura e delle lingue indigene, i corsi di formazione per insegnanti sono pochi e mal strutturati, il materiale didattico per lo più inesistente. Uno dei risultati di questa tragica condizione di arretratezza è l’analfabetismo endemico negli strati più poveri della popolazione. Eppure, dopo il “levantamiento” zapatista del 1 gennaio 1994, le stesse comunità hanno cercato di organizzarsi e hanno dato vita a un sistema parallelo di educazione autonoma partecipativa, creata dal basso, includente e non escludente, che tenga conto delle diverse lingue maya e che basi la sua legittimità sulla logica dell’insegnare imparando. Con la costituzione di diverse scuole primarie e di alcune secondarie, ovviamente non riconosciute dallo Stato messicano, si è cercato di ridare centralità al dialogo fra promotores de educación (i maestri) e alunni, di acquisire insieme maggiore coscienza politica e sociale, di ridar peso alla saggezza degli anziani, di rivalutare i metodi tradizionali di trasmissione delle conoscenze comunitarie e di unire l’elaborazione di concetti e di teorie con pratiche quali ballare, cantare, disegnare e coltivare la terra. Da questo continuo sperimentare è nato un modello educativo in cui i partecipanti a ogni livello, siano essi alunni, padri e madri di famiglia, promotori o formatori di promotori, anziani della comunità ecc., hanno
diritto di decidere insieme cosa insegnare e come, dando vita a un confronto aperto e in continua evoluzione, e di stabilire orari delle lezioni che rispecchino le necessità di tutti. Si tenga conto, a tal proposito, che spesso a frequentare la scuola non sono solo bambini e adolescenti, ma anche donne e uomini adulti, con figli e famiglie a cui badare e lavori quotidiani da svolgere. Quest’esperienza, tuttora in via di sviluppo, è rivoluzionaria non tanto per i risultati ottenuti, che in un contesto di continua guerra a bassa intensità e di povertà imperante non possono ovviamente essere di eccellenza, quanto per il processo stesso che ha portato a pensare e progettare tale esperienza: un processo che, come detto, coinvolge tutti gli attori del sistema educativo e che presuppone una relazione non gerarchica e non autoritaria fra educatore ed educando. Visitando le comunità chiapaneche, infatti, ci si rende conto di quanto i promotori non siano che ragazzi e ragazze fra i quindici e i venti anni, con un livello di istruzione generalmente basso, però disposti a mettersi al servizio del villaggio a titolo gratuito camminando insieme ai propri alunni e imparando facendo. Un metodo partecipativo, questo, che si rifà in parte alla pedagogia degli oppressi del brasiliano Paulo Freire, soprattutto nelconsiderare il processo educativo alla stregua di un percorso di emancipazione dall’ignoranza e dall’oppressione. In tempi di riforme educative all’insegna della produttività ad ogni costo edelle migliori sinergie fra mondo della scuola e mondo del lavoro, gli Zapatisti ci insegnano a riscoprire il valore più olistico e sociale, oserei dire più sacro, dell’educazione.
Maurizio Molinari