– La scomparsa di Enzo Biagi costituisce, alcuni anni dopo quella di Indro Montanelli, la più grave perdita per il giornalismo italiano. Da uomo di scuola, mi chiedo subito che cosa sappiano i giovani di oggi di quello straordinario bolognese. Se potessi spiegare loro chi sia stato Biagi, prenderei le mosse dal distintivo che ha voluto con sé nel sepolcro. Il distintivo, cioè, delle brigate partigiane di Giustizia e Libertà (Partito d’azione, l’unico al quale gli abbia dato la sua adesione).
Biagi fu partigiano sulle sue colline contro i tedeschi e contro i loro servi fascisti. La vocazione di Enzo era il giornalismo, che praticò per tutta la vita, sulla carta stampata e nella televisione pubblica. Non fece della sua partecipazione alla Resistenza il trampolino di una carriera nella politica, come fecero tanti altri. Fu, semplicemente, un cultore della verità, alla quale dedicò ogni suo scritto. Il suo stile era inconfondibile. Si faceva capire da tutti, e lo faceva mettendosi al servizio del pubblico, illustrando i suoi concetti senza mai offendere nessuno, senza mai alzare la voce, tutt’al più ricorrendo alla sua garbata ironia. Parlava a tutti gli italiani.
Era un laico non credente, eppure, tra gli illustri personaggi di tutto il mondo da lui intervistati, predilesse tre preti: don Zeno Saltini, organizzatore di comunità cristiane, ripudiato dalla Chiesa ma restituito ad essa da papa Giovanni; don Milani, l’educatore dei fanciulli poveri a Barbiana nel Mugello, anch’egli osteggiato dalle gerarchie; don Mazzolari, che condannò come grave errore il “matrimonio” tra Chiesa e fascismo celebrato con i Patti Lateranensi. E un grande prete, l’ adorabile romagnolo cardinale Ersilio Tonini, è andato l’ 8 novembre ai suoi funerali, e la sera, nella trasmissione Annozero di Santoro, lo ha celebrato e pianto come si piange un amico stimato; poi, riferendosi alla cacciata di Biagi dalla Rai, ha parlato più chiaro di tutti: «lo hanno ammazzato». Sì, perché quando si viene licenziati a 82 anni, si pensa solo una cosa: che la propria vita è finita, e che l’ingiustizia patita non potrà avere rimedio.
Aveva fiuto, Biagi, e quel fiuto faceva tutt’uno con quel distintivo di Giustizia e Libertà. Non fece mai pesare quella sua scelta politica, alla quale restò fedele per tutta la vita. Intervistò cioè insigni dirigenti comunisti senza mai rinfacciar loro che i fondatori di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli (assassinato dai sicari francesi di Ciano e di Mussolini nel 1937) e Gaetano Salvemini, amavano la Giustizia sociale non meno di Gramsci, ma rifiutarono la dittatura sovietica accettata e difesa da Togliatti. Intervistò i massimi dirigenti della Democrazia Cristiana, senza rinfacciar loro che la Libertà di Rosselli e Salvemini non fu uno scudo dietro il quale celare retrivo clericalismo e conservazione sociale.
Riuscì indigesto a Craxi e a Berlusconi, ma non piegò la schiena dinanzi al loro strapotere. Tanti giornalisti lo hanno fatto, e quando Biagi fu cacciato dalla televisione pubblica per il suo «uso criminoso» della medesima, non ci fu nemmeno un’ora di sciopero di protesta della categoria. Ferruccio De Bortoli ha detto, pochi minuti dopo la scomparsa del collega, che Enzo Biagi ci ha «insegnato la libertà, che qualche volta ha un costo». Anche qui il riferimento era chiarissimo: il «costo» era stato la cacciata di Biagi dalla televisione pubblica imposta dai dirigenti della Rai dopo che l’allora capo del governo Berlusconi lo aveva accusato di aver fatto della tv pubblica «un uso criminoso», che non avrebbe dovuto ripetersi. Biagi ne sofferse moltissimo, perché il suo dialogo con gli italiani gli era stato vietato. Quando, grazie alla vittoria elettorale del centro-sinistra, tornò alla televisione, Biagi si scusò della sua assenza dai teleschermi, durata cinque anni: «un incidente tecnico», disse con il suo inconfondibile garbo. Pensava, dicendolo, al suo affezionatissimo pubblico di sempre.
Chi aveva gradito l’ostracismo che lo aveva colpito, gioirà oggi constatando che in televisione Biagi, questa volta, non potrà davvero tornare? Me lo chiedo con angoscia.
di Alessandro Roveri
Già Professore di Storia contemporanea all’Università di Ferrara