LE IDEE
– Sullo scorso numero della Piazza, Silvio Di Giovanni, ha raccontato la figura di Enrico Tanelli e la sua precoce e “assurda” morte. Astorre Mancini gli ha risposto con questa lettera, alla quale replica Di Giovanni. Punti di vista che aiutano a riflettere sul senso dell’uomo.
Caro Silvio,
scusa se intervengo nella sfera del tuo privato, ma avendo tu scelto di rendere pubbliche le belle parole che hai riservato alla memoria di Enrico Tanelli, pubblicate su questo giornale nel novembre scorso, non puoi sottrarti alla riflessione altrettanto pubblica di chi, come me, ha trovato quelle parole piene di bellezza e di amore per la vita.
Il tono elegiaco della tua prosa non lo dico per compiacerti – mi ha ricordato le migliori orazioni funebri di Ovidio od Orazio, ma al contempo l’ho trovato decisamente stonato, perdonami la franchezza, quando ti rivolgi ai “credenti” esprimendo una serie di considerazioni che non fanno onore alla tua intelligenza.
In questa occasione, una bella e colta sensibilità come la tua ha tradito più la vocazione ad essere un semplice “mangiapreti” (ce ne sono tanti in giro!) che non a comprendere ed approfondire ciò che anima davvero un credente; eppure tanti “razionalisti” come te, se anche non hanno abbracciato la fede, si sono posti tuttavia con maggiore rispetto innanzi al grande problema umano del rapporto con il Tutto, sia esso la natura, la creazione, Dio e la trascendenza.
Quando osservi che l’uomo da sempre “costruisce divinità attribuendogli ciò che ci fa comodo attribuire”, hai forse in mente qualche superstizioso devozionista che rincorre le statue in lacrime della Madonna o programma la guerra in Iraq cercando conferme nei sacri testi biblici, ma non puoi certo rivolgerti con simile sarcasmo a chi vive la dimensione vera del rapporto personale con la trascendenza, che è fatta in primo luogo di silenzio ed ascolto, discernimento nel dubbio, inquietudine, senso di finitudine.
Tu stesso affermi “nelle notti insonni mi tormenta l’impotenza nostra in quella ultima, tragica ora fatale”: ebbene, Alfred Whitehead diceva che “la religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine”, credere significa dunque in primo luogo confrontarsi con sé stessi e con il proprio destino, è la ricerca di senso che ci anima e che in alcuni diviene consapevolezza di una trascendenza, e cioè dell’esistenza di qualcosa che avvertiamo come totalmente Altro e da cui in qualche modo pensiamo di dipendere.
Non c’è dunque alcuna via facile e consolatoria, caro Silvio, dietro l’adesione ad una fede, né tantomeno un furbo accomodamento, ma cammini personali, spesso diversi tra loro, che partono dalla medesima constatazione che la nostra natura è misteriosa e che questo mistero, come diceva Thomas Mann, “forma l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande”.
Don Milani, che conosci bene, od il biblista Sergio Quinzio che da credente ha patito lo smacco della morte odiosa della giovane moglie di 31 anni, per cui “neppure nel giorno del Giudizio la sofferenza potrà mai essere cancellata, ma solo consolata”; od ancora Simone Weil, che ha vissuto con travaglio il senso innato di trascendenza che la animava cercando di risolvere quello che nella Lettera ad un religioso definiva “il disagio dell’intelligenza all’interno della fede”, per non dire di Dietrich Bonhoeffer, Pavel Florenskji, Edith Stein: sono tutti esempi di esperienze di vita mantenute all’interno non già di una pacificante pratica religiosa, bensì di un orizzonte di fede travagliato, un credere inquieto, sorretto dal confronto continuo con la sofferenza dell’anima, una inquietudine spesso disperata da meritare comunque, se non la comprensione, almeno quella curiosità intellettuale che pure sono certo ti abita.
Credi davvero che questo modo di essere credente abbia qualcosa a che fare con quell’assurdo concetto di un dio magico che tutto sa e tutto vuole, che sceglie il minuto in cui passeremo da questa vita, che richiami nel tuo articolo?
E’ forse un retaggio deformato delle immagini di Dio che costruiamo nell’infanzia, ma questo concetto del divino vive solo in una certa credulità popolare, non certo nell’animo dei credenti, la cui realtà è ben diversa e parte da un concetto opposto, e ben noto: Dio ha lasciato Gesù Cristo appeso alla Croce, mostrandoci così che la nostra logica umana (per cui Dio dovrebbe evitare le disgrazie) ed il piano divino di salvezza parlano linguaggi del tutto diversi.
Nessuna magia, dunque, nessuna potenza taumaturgica: non può esserci fede laddove c’è una spiegazione razionale e scientifica di tutto, o quando il divino risponde ai nostri desideri ed alle nostre aspettative; al contrario, avere fede significa abbandonarsi fiduciosamente ad un piano divino di salvezza misterioso che dobbiamo leggere tra le pieghe della nostra condizione umana, e dunque della nostra quotidiana sofferenza.
Essere credenti significa convincersi che tutto possa essere recuperato dentro un orizzonte di senso, che ci supera e ci trascende, significa intuire che il mistero della vita non è il male, ma l’antinomia, il contrasto tra leggi contrapposte ed egualmente valide: alla bellezza della vita, degli affetti, dell’amore la stessa esistenza ci oppone la disperazione dei momenti di lutto, la sofferenza della carne e dell’anima.
Astorre Mancini
Caro Astorre non ho offeso nessuno
– Caro Astorre,
ho letto la tua lettera di commento, da te inviata a “La Piazza”, sulla mia di novembre in ricordo del nostro Enrico.
Ti ringrazio per i complimenti che fai al mio modo di scrivere. Mi sono doverosamente riletto il mio scritto, ma non riesco a cogliere quella stonatura che tu mi attribuisci, quando accenno a ciò che credono i “credenti”.
Nel mio ricordo al nostro caro congiunto non mi pare di avere offeso né la sensibilità, né l’intelligenza di chi crede.
Non penso proprio che in questo mio scritto si possa ravvisare un’offesa ad alcuno. Sono cose che la Chiesa ha sempre insegnato e tuttora insegna e che uno spirito ateo non può condividere ed ha tutto il diritto di poterlo dire.
Non riesco a trovare nulla di offensivo per il credente se le illustro in una lettera, nel modo come le ho illustrate, n’è mi pare di essermi pronunciato come un “mangiapreti” e nemmeno con “sarcasmo”. Ho fatto soltanto delle constatazioni per le quali non occorre necessariamente la fede nelle religioni e nel divino per educare e crescere gli uomini migliori.
Vedi Astorre, è un luogo comune costruito nei secoli, dalle pretese sacerdotali, quello che considera l’espressione del pensiero ateo rivolto alle religioni, a tutte le religioni, come un’offesa al credente. E’ un tabù che va superato in nome della ragione e del reciproco rispetto.
Io lo so che ci sono, per fortuna dico io, persone credenti con un’apertura mentale di livello superiore che non credono più a certi dogmi ed è con queste persone che sarà, non solo utile ma necessario, un continuo confronto e collaborazione su tutti i temi scottanti, (a prescindere dalla trascendenza), cui l’umanità ha davanti e che dovrà affrontare, se non vuole cadere nel baratro di un disastroso futuro.
Io non ho cercato, né voluto cercare, né voglio cercare un confronto sulla trascendenza. Assolutamente no. Se un confronto è utile cercarlo, il tema da scegliere per un fattivo contributo costruttivo tra: il credente illuminato, da una parte e, dall’altra parte, il pensiero razionale al di fuori della fede; non è certo sul piano della trascendenza perchè è un campo che, a parer mio, non serve, non porterebbe da nessuna parte e sul quale sarebbe difficile intendersi, né mi sembra necessario tentare di intendersi.
Invece i campi di intesa sono tutti gli altri che si trovano di fronte a noi e che possono farci trovare d’accordo: – il pericolo del terrorismo ed il perchè è nato e prolifera, – la fame nel modo con la crescita demografica incontrollata del terzo mondo e la vergognosa mortalità infantile, – lo sfruttamento del lavoro minorile e le guerre con bambini-soldato, – il diffondersi dell’AIDS ed il tabù sull’uso del condom in nome di non so quale dogma, – il problema del fondamentalismo religioso di quei popoli che non hanno goduto, come noi occidentali, del processo illuministico, – il problema della laicità dello Stato ed i confini della possibile interferenza del pensiero religioso, – la possibile distruzione dell’equilibrio ecologico della natura con la deforestazione continua e l’inquinamento dell’aria dai prodotti della combustione petrolifera in continuo e sfrenato aumento, sono solo alcuni esempi dei campi di intesa e di possibile fattivo lavoro assieme.
L’importante è che ciascuno di noi si possa esprimere con libertà in ogni campo, anche in quello delle religioni, senza dover temere di urtare la sensibilità di altri, giacché non è un privilegio, né una colpa, ma solo un diritto, il pensarla in maniera affatto diversa uno dall’altro e poterlo dire.
Caro Astorre, giacché tu mi hai citato tanti autori e personaggi di cultura e di fede, io ti confido che la mia tranquillità di non credente poggia su solide basi di alti riferimenti umani e morali, a prescindere dalla fede e che tra i miei autori preferiti e più importanti vi è la fulgida figura del matematico, filosofo ed eccelso uomo di cultura quale Bertrand Russell e poi, forse in maniera più modesta, ma per me non meno importante, ti cito un altro personaggio che mi riempie il cuore di orgoglio per averlo avuto quale nostro concittadino e sindaco, nella persona di quell’educatore che porta il tuo cognome e che pure, come me, non era credente e che dal suo decalogo che pubblicò e distribuì agli alunni delle scuole di Cattolica il 1° maggio del 1909, ti evidenzio solo l’ottavo punto, che così recita: “Osserva e medita per conoscere la verità, non credere ciò che ripugna alla ragione”.
Gli altri nove punti del suo decalogo forse già li conosci, sono tutti semplicemente sublimi e tu avrai certo capito che mi riferisco all’avvocato Vincenzo Mancini, detto Cino, che morì giovanissimo di malattia virulenta, a soli 36 anni l’8 giugno del 1912.
Il mio pensiero è stato da tempo plasmato da parole come queste e come le altre espresse nell’intero decalogo, compresa la grande illusione racchiusa nel decimo ed ultimo punto, di quel decalogo, che esprime in sé la migliore utopia di cui io mi sia innamorato fin da giovane.
Ciao, un saluto da un anziano al figlio di un amico.
Silvio Di Giovanni