– Siamo tornati dal Saharawi Refugee Camps portando con noi tre doni preziosi: l’accoglienza generosa e sentita, una speciale bacinella per l’acqua, la fiducia tenace nel domani. Anche tanto altro ci è stato offerto da questo popolo costretto a vivere profugo nel deserto dell’Algeria in condizioni di grande povertà e difficoltà, ma soprattutto di “ingiustizia”.
Il piccolo popolo Saharawi, privato della sua terra e della libertà, vive da 30 anni nel deserto (un odierno Israele?), sognando il ritorno nella propria patria.
La nostra avventura è iniziata quasi per caso leggendo un depliant sulla maratona di solidarietà con il popolo Saharawi che proponeva ospitalità nelle famiglie locali, visita alle tendopoli, passeggiate tra le dune. Ci siamo detti: perché no? Pur non essendo particolarmente sportivi ci siamo sentiti “incuriositi” da questa iniziativa di solidarietà. Non ci hanno spaventato i problemi di natura igienico-sanitaria e neppure le difficoltà di adattamento.
La notte del 23 febbraio siamo partiti per Tindouf in Algeria, carichi di bagagli: sacco a pelo, vestiario, regali per le famiglie ospitanti, materiale scolastico, medicine, ecc. Il primo impatto con questa zona dell’Africa per noi ha un nome: sabbia. E dire che dovremmo essere abituati. Sabbia nell’aria, in ogni angolo dell’autobus nel cibo, sugli abiti, nelle case… sabbia.
I saharawi convivono con essa tranquilli e forse rassegnati, noi un po’ meno. Ma ecco l’accoglienza nelle loro famiglie, ospitalità generosa e attenta. Tu sei in casa loro, sei una parte della loro famiglia e sono festosi e gioiosi nell’accogliere il parente arrivato da lontano. Dignitosi e generosi, contraccambiano i nostri doni con piccoli oggetti e insegnandoci i trucchetti per “sostenere” il deserto: camicioni, turbanti e… tè, tanto tè, molto zuccherato e con una lunga preparazione, con un rituale che rasenta le due ore.
L’impatto con il cibo è difficile, i servizi igienici quasi inesistenti, grave la carenza d’acqua. Igiene discutibile, il gran caldo… a vi vlù la bicicleta? Pidalè! Ma (e questo è il dono grande) ci siamo chiesti se accoglieremmo così serenamente loro in casa nostra: sapremmo essere così disponibili e affettuosi, ci sentiremmo loro fratelli e sorelle?
L’ambiente è ostile, non cresce nulla, l’acqua viene portata da autobotti e viene consumata con la massima parsimonia. Ci viene fatta vedere da un medico saharawi che segue un progetto per disabili, una piccola bacinella (che troviamo in ogni famiglia) che viene usata per lavarsi formata da un contenitore con un coperchio forato attraverso il quale viene raccolta l’acqua usata e sporca per essere riutilizzata in altre occasioni: pensiamo ai nostri sprechi, alle nostre disattenzioni, ai nostri stili di vita superficiali e… ci sentiamo fortunati, superfortunati e in colpa!
Quale grande dono anche questo di sapere accettare e sapere conservare l’essenziale. La parsimonia “mia” per far vivere meglio “noi”; la comunità che si fa responsabile dell’acqua che ha, affinché nessuno rimanga senza. In questi villaggi di tende e case di mattoni cotti al sole abbiamo incontrato tanti bambini, bellissimi, tante donne, pochissimi anziani; e gli uomini?
Visto il numero dei bambini deduciamo che ci sono, ma dove sono finiti? Sono fuori a lavorare, o sono a presidiare un assurdo muro di sabbia e sassi alto 5 metri e lungo 2500 Km fatto costruire dal Marocco per impedire che i saharawi tentino di ritornare nella loro terra.
Accidenti, il muro di Berlino era uno scherzo! Questo piccolo grande popolo (220.000 persone) sfuggito al genocidio 30 anni fa, continua tenacemente la sua epopea nelle tendopoli dell’esilio, fiducioso nella sua capacità di resistenza, sognando la terra dei padri, sognando un futuro migliore per i propri figli, confidando anche nel nostro aiuto, non solo economico, ma soprattutto informativo: fate sapere chi siamo, come viviamo, quale giustizia aspettiamo dalla comunità internazionale.
E intanto ci offrono il tè, ché un segno della loro ospitalità; tre bicchierini: il primo amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore e il terzo soave come la morte.
Non importa se si beve nei bicchieri degli altri, se i bicchieri vengono lavati tutti nello stesso dito d’acqua e asciugati con uno straccetto che serve per pulire un po’ tutto. Non importa. Ci troviamo a cantare, a ballare, a comunicare più a gesti che a parole le cose della nostra vita. Alla fine ci siamo ritrovati ad usare il lembo del turbante per asciugare le mani, per pulirsi il naso, per asciugarci il sudore, per ripararci dal sole, dal vento e dalla sabbia quasi come veri fratelli saharawi.
Gli amici di Cattolica