– La strada dell’antimafia si fa più difficile. Magistrati e poliziotti continuano a darci dentro, l’arresto di Provenzano ne è la prova. Ma qualcosa si è inceppato nel momento in cui la magistratura ha aperto procedimenti a carico di imputati “eccellenti” del mondo politico, imprenditoriale e professionale: le collusioni che sono da sempre la faccia in ombra, ma portante, del sistema mafia.
Che la cattura di Bernardo Provenzano rappresenti un fatto di eccezionale importanza nel contrasto investigativo-giudiziario della mafia siciliana, è un dato di fatto incontrovertibile e ormai storico. Guai a trascurare, però, la lezione di Giovanni Falcone, sempre attento a mettere in guardia dai troppo facili entusiasmi: la cattura di un capomafia, anche se di elevatissima caratura criminale, non corrisponde alla definitiva sconfitta di “Cosa nostra”.
E la sacrosanta soddisfazione per l’arresto di un mafioso da guinnes dei primati non deve far dimenticare che “Cosa nostra” è prima di tutto un’organizzazione. Un vero e proprio sistema di potere criminale, con tutto un corredo di complicità e coperture che ne costituiscono la spina dorsale. Per cui, arrestare i boss è di fondamentale importanza.
Ma nello stesso tempo occorre colpire l’organizzazione in quanto tale, soprattutto sul versante di quelle complicità che ne sono lo specifico criminale. E’ la stessa storia di Cosa nostra che lo dimostra.
Dopo le stragi del 1992, la forte reazione dello Stato ha inflitto alla mafia siciliana colpi durissimi. In particolare, a Palermo vennero catturati latitanti come mai in precedenza: Salvatore Riina; Raffaele, Domenico e Calogero Gangi; Leoluca Bagarella; Giovanni ed Enzo Brusca; Pietro Aglieri; Filippo e Giuseppe Graviano; Mariano
Tullio Troia; Vincenzo Sinacori; Vito Vitale; Giuseppe La Mattina; Cosimo Lo Nigro; Giovanni Buscemi e tanti, tantissimi altri ancora. Gli arresti, sempre a Palermo, sfociarono in condanne per 650 ergastoli e centinaia di anni di reclusione. Portarono inoltre alla confisca (dal 1993 al 1999) di beni mafiosi per un valore complessivo di 10mila miliardi di vecchie lire. “Cosa nostra” era davvero stretta in un angolo. Sembrava davvero finita. E invece?.
I tanti arresti, le tante condanne, le tante confische, i tanti successi ottenuti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura palermitana imposero a “Cosa nostra” di cambiar strada, di attuare una sorta di “strategia della tregua”, finalizzata da un lato a cicatrizzare le ferite subite e dall’altro a far dimenticare la tremenda pericolosità dell’organizzazione. Niente più stragi, niente più omicidi eclatanti (quando si uccide, lo si fa con la “lupara bianca”, senza strepiti) . Lo spirito di “mediazione” e non lo scontro aperto praticato dai corleonesi di Riina. Leader della nuova stagione fu proprio Bernardo Provenzano. E’ lui che adotta la tattica del “cono d’ombra”, con l’obiettivo appunto di rendere invisibile l’organizzazione, di inabissarla. Nel contempo, rafforza la struttura a “compartimenti stagni” del gruppo criminale, affinché ciascun affiliato conosca solo un piccolo segmento, e non più di tanto,
dell’organigramma complessivo (ciò in parte spiega i tanti, troppi anni di latitanza di Provenzano). Così, nonostante la tempesta abbattutasi su Cosa Nostra dopo le stragi, la mafia riesce a confermare e consolidare il controllo sul territorio. Pratica un racket delle estorsioni meno aggressivo (perché si attiene al motto “pagare meno per pagare tutti”) ma più diffuso. Diviene sempre più una mafia degli affari. Riesce a intromettersi in tutti gli appalti di un certo rilievo.
Ricicla su scala internazionale: le cosche, come i protagonisti di Tangentopoli, trasferiscono i soldi nei paradisi fiscali di Panama, Bahamas, Isole Cayman, ecc. Si rivolgono a studi finanziari in Lussemburgo e nel Liechtenstein, capaci di pianificare gli investimenti con programmi elaborati su misura. Società intestate a prestanome e trucchi contabili (mentre spesso sono insufficienti le collaborazioni, i controlli e la prevenzione da parte degli organi competenti, nazionali e stranieri) rendono le ripuliture internazionali via via più sofisticate e sfuggenti. In sostanza, la strategia con la quale Provenzano traghetta Cosa Nostra verso il terzo millennio è meno sanguinaria, ma più insidiosa, anche perché ha di fatto favorito l’affievolirsi dell’attenzione sulla questione mafia in conseguenza del calo “statistico” dei fatti di sangue. Cambia l’attenzione e si modifica “il clima”.
La strada dell’antimafia si fa più impervia e difficile. Magistrati e poliziotti continuano a darci dentro, l’arresto di
Provenzano ne è la prova. Ma qualcosa, sul versante non propriamente investigativo-giudiziario, si è inceppato nel momento in cui la magistratura, oltre a occuparsi dell’ala militare di Cosa Nostra, ha aperto procedimenti a carico di imputati “eccellenti” appartenenti al mondo politico, imprenditoriale e professionale, cioè alle collusioni che sono da sempre la faccia in ombra, ma portante, del sistema mafia. Si scatenano allora attacchi calunniosi a pubblici ministeri e giudici, accusati di costruire teoremi per ragioni politiche. Qualcuno preferisce perdere una guerra che si poteva vincere.
Che cosa succederà, dopo l’arresto di Provenzano? Purtroppo non si può escludere che possa riprendere la “vocazione” stragista o possa esserci una guerra di successione. Ma è più probabile che i mafiosi abbiano capito che la pax è un ottimo affare e che i nuovi capi (si tratti di Lo Piccolo o di Messina Denaro) non facciano altro che proseguire la via tracciata da Provenzano.
Un uomo vecchio e malato che ha condotto fino in fondo il suo percorso e ha consegnato ai suoi successori una mafia in salute: più ricca dal punto di vista finanziario e delle alleanze di quanto non fosse ai tempi di Riina.
Ma il dopo Provenzano si gioca soprattutto sul versante delle coperture di cui l’organizzazione gode. “Cosa nostra” non è certo onnipotente, ma se tali coperture non sono aggredite con forza e continuità, senza sconti o scaltrezze, può trovare sostegni preziosi se non decisivi anche nei momenti più difficili.
Se continua il malvezzo di battere le mani quando si arrestano capimafia e gregari, per gridare al teorema o al complotto quando si cerca di far luce più in profondità, allora avrà ancora una volta ragione chi come il fondatore del Centro “Peppino Impastato” di Palermo, Umberto Santino sostiene che “si può anche arrestare Provenzano, ma il divieto ad andare oltre è più esplicito che sottinteso”.