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Lavoro: più ricchezza, più solitudine

Redazione di Redazione
12 Luglio 2007
in L'altra pagina
Tempo di lettura : 2 minuti necessari
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logan da Serge Latouche (è anche il titolo di un suo libro). Scorrendo le pagine mi rendo sempre più conto di quante cose diamo per certe senza averle mai approfondite o discusse con altri. Anzi comincio a farmi l’idea che ciò di cui non osiamo o pensiamo inutile parlare, ciò che pensiamo non opportuno indagare o che crediamo troppo complicato per renderlo oggetto delle nostre discussioni, nasconde privilegi e una nicchia di potere di chi vuole dominare, convincendo molti che sono ben altre le cose da prendere in esame.
Anche nella vita personale trovo questo meccanismo. Le cose della nostra vita che non vogliamo mettere in discussione o sulle quali non accettiamo di confrontarci, nascono spesso da quel poco o molto potere che vogliamo tenere stretto.
Facciamo un esempio: una persona che lavora giorno e notte, investendo la maggior parte delle sue energie per crearsi una sicurezza economica. Ogni tanto percepisce che le relazioni personali si impoveriscono progressivamente e accusa un senso di solitudine sempre più profondo.
Pian piano comincia a ritenere il mondo ostile, accusa gli altri che non riescono a capire il suo sforzo e la sua dedizione. Sentendosi poco apprezzata, si tuffa ancor di più nel lavoro in una spirale di chiusura che sembra non avere fine. Ovviamente, non può mettere in discussione il lavoro che produce ricchezza, questo è un comandamento del capitalismo e del mercato; quindi si sente nel giusto.
Il metro di misura per dare un valore alla sua vita è incentrato sulla sequenza lavoro – soldi – lavoro che altri hanno decretato una necessità e che questa persona ha accettato senza discutere.
Chi di noi può giudicare “volgari” parole come “progresso”, “ricchezza”, “sviluppo”, “crescita economica”, “urbanizzazione”? Parole e idee che iniettano insensibilmente quella mentalità della distinzione e privilegio e dominio che ormai ha intossicato il nostro modo comune di pensare e di agire.
Molto di ciò che riteniamo vero, importante, normale, molto spesso non è una nostra faticosa conquista, ma l’accettazione passiva di ciò che altri hanno deciso indiscutibile perché radicalmente vero.
Per cui non serve più la forza per dominare, basta convincere. E senza neppure grande sforzo, perché l’acquiescenza a questo modo di essere e di agire ci premia e ci fa sentire persone socialmente utili, anche se la nostra qualità umana non cresce, ma rimane a stadi infantili.
Forse sono altri gli immaginari da coltivare: una conoscenza che proviene dal coinvolgimento e dal farsi carico del volto e della vita delle persone che incontriamo, un ascolto di mente e cuore che vuole capire e accogliere, un parlare di noi e non solo delle cose, un dialogo aperto su ciò che ci accomuna e ci unisce, un’azione paziente e progressiva di lento cambiamento sostenuta non da buoni propositi, ma da continue decisioni che vanno nella direzione dell’apertura e del costruire insieme.
In fondo credo che riportare la persona al centro del nostro progettare la vita sia la sfida che, se accolta, comincerà a disintossicarci dall’immaginario creato dalla volontà di dominio.

di Alessandro Crescentini

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