AMARCORD
“Avevo la fidanzata al Macanno. Com’era diverso rispetto ad oggi: strada bianca e polverosa. Ricordo le case dei Marfoglia, Ciotti, Cecchini, Donati, Perazzini, Galli; Serafini. Si nascose l’ebreo ‘Emilio Bonardi’ (Renato Finzi),
ospite di “Gep ad Gesuit”
– L’occasione della festa rionale di domenica 30 settembre, nell’ampia Piazza Che Guevara, al Macanno, con il sollecito degli organizzatori di questa seconda simpatica ricorrenza, mi ha fatto affiorare i ricordi di gioventù.
A quei tempi, di sera ed alla domenica ci si recava a casa della fidanzata.
Io avevo una piccola Moto Guzzi (Guzzino 63 cc) e con quello mi recavo al Macanno ove abitava la mia giovane fidanzatina. Com’era diversa la zona del Macanno rispetto ad oggi!
Il territorio è quello a monte della ferrovia tra il torrente Tavollo ed il rio Vivare, le cosiddette “Overe”, il cui corso d’acqua allora ben evidente e fluente, oggi non lo si ritrova più.
Vi erano allora alcuni grandi poderi con poche case coloniche.
Vicino alla ferrovia vi era la casa dei Marfoglia, che ora prospetta sulla nuova Via Morandi. Sull’altro lato della Via Macanno, internata ed a una certa distanza da questa ma sempre vicino alla ferrovia, vi era la casa poderale dei “Biscièr” che di cognome facevano Ciotti. Da notare che questa vecchia casa, in linea d’aria rimasta vicina alla stazione ma tagliata fuori dalla rete ferroviaria, era invece, fino alla prima metà dell’Ottocento, una delle più vicine al nucleo abitato.
A monte del sentiero che scendeva all’acquedotto vi era, e vi è ancora, ma da tempo disabitata, la vecchia casa poderale ove abitava la famiglia contadina dei Cecchini, detti “Gesuit”, la cui aia frontale prospettava direttamente sulla via Macanno che ivi svoltava a sinistra e si snodava in due curve.
Salendo lungo la stessa strada, c’era, e c’è ancora, la ex Villa Bartoli, a secco sulla strada e sulla sinistra alla fine della seconda curva, che era diventata proprietà del Comune e che per un certo numero di anni ospitò la scuola elementare. C’erano poi le due case coloniche, una dei “Serafen”, che è quella ubicata di fronte alla nuova chiesa e l’altra è quella dei “Petrolie”, a poca distanza, che di cognome facevano Donati e che erano venuti ad abitare lì dopo la guerra.
Ancora salendo vi erano altri poderi con poche altre case ed altri ancora vi erano oltrepassando, sulla destra, il rio Vivare e andando verso la strada Provinciale Saludecese (oggi via Allende), con le case dei Bianchini detti “Pus-cion”, dei Galli detti “Bazot”, dei Perazzini detti “Bisuten” ed altri ancora.
Erano fiorenti terreni agricoli pianeggianti, con un impercettibile declivio che scendeva verso la ferrovia, solcati da stretti sentieri che li attraversavano e formavano le carreggiate agricole.
I campi erano rigogliosi di granoturco, di erba medica e di grano, che allora, in alcuni poderi, veniva ancora allevato alto da terra, per lenire i dolori di schiena dei mietitori che, con la falce in mano, mietevano ancora come una volta.
Nella inoltrata primavera la massa ondeggiante delle spighe, appena dorate nell’insieme verdeggiante che il vento muoveva e le faceva apparire come un mare fluttuante, conferiva alla distesa un senso di grande dimensione, di enormi distanze che il ricordo fa, come d’uso, oltremodo ingigantire.
La stradina via Macanno ovviamente non era asfaltata e aveva ai due lati un continuo boschetto alto circa un paio di metri, il cui fogliame, quando era un po’ di tempo che non pioveva, era imbiancato dalla polvere che si sollevava da terra al passaggio degli automezzi gommati che cominciavano già a transitare.
Nel Macanno si era già in campagna, anche se le case coloniche più vicine alla ferrovia distavano meno di cento metri dal nucleo paesano abitato.
Oggi è un’enorme zona ampiamente edificata, con strade, piazze, giardini, parchi, parcheggi, servizi di ogni genere ed è ben difficile che un giovane possa immaginarsi ciò che era quel luogo circa mezzo secolo fa.
Mia moglie era una ragazzina che abitava in via Macanno, quindi al di sopra della ferrovia lungo la unica strada, piccola e polverosa, che era la sola rete viaria che dal passaggio a livello della ferrovia, si inoltrava attraverso i poderi e si snodava, con andamenti curvilinei, fino ad arrivare nel territorio di San Giovanni.
Già nei primi anni ’50, sulla destra della strada, dopo il passaggio a livello, avevano iniziato a costruire alcune abitazioni di tipo estremamente economico, lungo un tratto di circa 150 metri, con dieci casette con minuscoli cortili.
L’ultima di queste casette, prima della via dell’acquedotto; piccola, a piano terra, solo di due stanze più una cucinetta ed un ingresso, era quella del mio futuro suocero che era venuto ad abitare da Mondaino nel dopoguerra e che, operaio con salario fisso e con economia famigliare basata sul risparmio e stile di vita sobrio ed indebitandosi, com’era d’uso in quei tempi, nonché armato di coraggiosa speranza, si era fatto costruire da una impresa edile di Cattolica, che fra l’altro il titolare: Antonio Sangiorgi, era il marito della mia zia Esterina, sorella di mio padre.
Fatto storico
Nell’estate del ’43, un anno prima del passaggio del fronte di guerra con l’arrivo degli alleati e la conseguente cacciata dei fascisti e dei tedeschi, un signore di passaggio, che sotto il falso nome di Emilio Bonardi e con documenti falsi era alloggiato nell’albergo Commercio in via Cavour, conobbe per strada uno della numerosa famiglia dei Cecchini che si chiamava Giuseppe, ma che era da tutti conosciuto come “Gep ad Gesuit” e che aveva allora 39 anni.
Gep, tornando a casa a piedi, sia lungo la via Cavour, sia lungo la via Macanno, aveva più volte notato questo distinto signore che passeggiava solo e soletto su queste strade.
Il traffico di gente era pochissimo allora e l’incontrare più di una volta uno sconosciuto, autorizzava, per la normale cortesia, a salutarsi ed anche ad intavolare un dialogo. Fu così che questo signore; che a volte non disdegnava di entrare nell’aia di casa dei “Gesuit”, per salutare e chiacchierare durante le sue passeggiate; chiese a Gep ed ottenne di poter andare ad abitare nella casa colonica di campagna dei Cecchini, pagando una retta giornaliera e contribuendo ai lavori di casa, dei campi, nella stalla e nell’aia, per quel che era in grado di fare.
Nella primavera seguente, in quel memorabile anno 1944, già altre persone di Cattolica, che erano sfollate dal centro del paese, si ammassavano nelle capanne e nei ripostigli delle case coloniche ed anche in quella dei “Gesuit”.
Lo sconosciuto aveva detto di essere rimasto solo nella vita perché la famiglia gli era morta sotto i bombardamenti e che gli piaceva di più stare alloggiato in campagna piuttosto che in un albergo.
Nell’albergo Commercio, ove era alloggiato, transitavano spesso i tedeschi e lui, senza dirlo ad alcuno, era in verità un ebreo. I militari tedeschi erano alimentati da un terribile fanatismo nella caccia agli ebrei e quindi la vita di queste persone era appesa ad un filo ed anche chi li ospitava correva un serio pericolo.
Mussolini ed il Re avevano introdotto in Italia le leggi razziali contro gli ebrei, fin dal 1938, per accattivarsi la simpatia e l’amicizia di Hitler, verso il quale il fascismo italiano dimostrava sempre un vergognoso servilismo che ci portò alla rovina e tanti ebrei italiani finirono nelle camere a gas dei nazisti.
Vestiva costantemente uno stesso abito con una capace giacca che gli permetteva di tenere addosso ciò che non poteva far vedere. Si è saputo poi, che era munito di abbastanza denaro che teneva nascosto ma che non mancava di aiutare qualcuno che si fosse trovato in ristrettezze alimentari ed in condizioni di estremo bisogno.
Mangiava a tavola con la famiglia contadina, accontentandosi di una sobria porzione di cibo, così come del resto tutti gli altri commensali; i tempi non permettevano di più.
Un giorno apparve un suo conoscente di passaggio e lui chiese se, per quell’ora del pasto di mezzodì, potesse ospitarlo accanto a sé a tavola al quale volle dare solo la metà della sua parte di desinare. A nulla valsero le insistenze della famiglia contadina per dare ad entrambi una porzione intera. Era un uomo rigoroso nel voler rispettare i patti e gli impegni assunti. Gep aveva notato una certa rassomiglianza con lui di quel suo conoscente ed il giorno dopo gli chiese se era suo fratello. Lui disse di no, evidentemente non sapeva se poteva fidarsi fino in fondo. Lo disse poi in seguito che, in effetti, era suo fratello e che stava nascosto in un’altra casa, in campagna nell’interno di Mondaino e quel giorno era sceso per incontrarlo.
La famiglia contadina, e specialmente Gep, si erano accorti dal suo modo di comportarsi, dal timore che dimostrava quando nella strada transitavano le camionette dei militari tedeschi e fascisti, dal fatto che aveva ricavato per sé un nascondiglio interrato nel vigneto lontano da casa; che era una persona avente bisogno di nascondere qualcosa ed un giorno Gep, mentre era solo con lui, gli chiese se era ebreo. Lui disse di no e lo negò sempre in ogni occasione fino al giorno dopo della Liberazione di quel sabato 2 settembre 1944.
Era un ebreo, infatti, si chiamava Renato Finzi e sua moglie era viva ed erano di Ferrara. Quella domenica 3 settembre del ’44 quando non c’erano più in giro né tedeschi né fascisti, si dichiarò pubblicamente abbracciando, piangente dalla contentezza e pieno di riconoscenza, sia Gep che tutta la famiglia contadina che lo aveva ospitato.
Fu un uomo squisito e riconoscente che non smise mai, per il resto della sua vita, di aiutare quella famiglia contadina che lo aveva nascosto, ricordandosene poi sempre in seguito con dei presenti ad ogni occasione della vita.
Io queste cose le ho sapute direttamente da Giuseppe Cecchini, alias “Gep ad Gesuit”, nell’estate del ’60, quando io, giovane capomastro e studente autodidatta, gli realizzavo la sopraelevazione della sua casa a Cattolica sulla via Larga (che era un’altra delle strade strette, non asfaltate e polverose come la via Macanno e che oggi si chiama via Amilcar Cabral), dove lui nel dopoguerra era andato ad abitare uscendo dalla vecchia casa poderale.
In verità per meglio completare la mia memoria ho chiesto precisazioni ed ulteriori notizie a Elvino Cecchini, figlio di Gep, che molto gentilmente mi ha completato il quadro del racconto di suo padre e quindi mi ha rinverdito il ricordo del mio ascolto di 47 anni fa.
Ed è così che, anche nel nostro Macanno, come in tante altre parti d’Italia, in quei terribili tempi dove la follia della comunque obbedienza insensata agli ordini militari condusse alla barbaria senza limiti (così come scrisse Don Lorenzo Milani nel 1965 nella sua lunga, precisa e puntuale risposta ai Cappellani Militari), si è manifestata, invece, quella importante solidarietà umana, così come alcuni mondainesi, tra i quali il nostro amato e compianto prof Atos Lazzari, hanno permesso di salvare la vita, con altrettanta solidarietà umana, a quel giovane ebreo, allora dodicenne, che si chiamava, e si chiama, Cesare Rimini e che nella vita è diventato un importante avvocato.
di Silvio Di Giovanni