– Solo ora, passato un po’ di tempo, cominciamo a renderci conto della bella esperienza fatta lo scorso agosto in missione di Sichili, dove don Marzio aveva operato anni fa. Don Marzio lo chiese quasi per scherzo “Verreste con me in Zambia per ristrutturare un orfanotrofio che ora non usano più e trasformarlo in un pronto soccorso?”.
“La cosa potrebbe essere anche possibile si rispose -. Così cominciò a concretizzarsi questa bella idea che entusiasmava. L’idea piaceva in particolare al gruppo missionario parrocchiale, che diede la disponibilità ad aiutare nel finanziamento.
Il nostro gruppo missionario non è nuovo a questi interventi. Lo scorso anno infatti, facendo appello a tutta la parrocchia e ai turisti, abbiamo potuto raccogliere 23mila euro e donare alla stessa missione un’ambulanza per il servizio ammalati.
La costruzione di un reparto maternità (seppur piccolo) non era la stessa cosa. C’era un progetto da elaborare, occorreva andare sul posto, e finanziare lo stesso progetto. La cosa cominciava a preoccuparci un po’. La superiora dell’ospedale missionario parlava di una spesa di circa 40mila euro. “Troveremo questa cifra ci chiedevamo l’un l’altro pensando però che i misanesi e i turisti hanno sempre risposto con tanta generosità siamo andati avanti fiduciosi. Fiducia largamente premiata perché la cifra raccolta ha superato il 64mila euro. Partimmo in quattro io, mia moglie Ivana, Daniele Gusella e don Marzio, che per la prima volta portava con sé in missione tre suoi parrocchiani di Misano. L’emozione vissuta nei giorni dei preparativi è stata grande. Il viaggio, i disagi (che non sono mancati) e soprattutto l’adattarsi ad una realtà di vita così diversa dalla nostra. Ma il pensiero al progetto che si andava a realizzare ci ha aiutati a superare tutte le preoccupazioni. “Ma siamo davvero in Africa” ci chiedevamo l’un l’altro. Quando però, arrivati a Livingstone, superate le difficoltà alle frontiere, lo spettacolo delle cascate Vittoria, formate dal fiume Zambesi, ma soprattutto la povertà della popolazione delle periferie della città, e l’interminabile viaggio in fuoristrada, sei ore di strada asfaltata e pista, sempre in foresta per raggiungere la missione, ci siamo resi conto che in Africa ci eravamo davvero. Il viaggio interminabile ci ha calati veramente nella realtà africana, quella realtà che sognavamo da mesi e che oramai amavamo come nostra. “A me sembra di essere tornato a casa” sentivamo ogni tanto dire a don Marzio. Noi invece eravamo un po’ disorientati. Un’esperienza che ci fece toccare con mano cos’è l’Africa fu il confronto con il loro mondo e modo di lavorare. Eravamo laggiù per costruire il reparto di maternità di Sichili, già progettato a Misano ( quattro stanze per 18 posti letto, sala parto, servizi). La superiora dell’ospedale, una simpatica suora francescana, ci aveva assicurato che aveva predisposto tutto . Ma alla prova dei fatti nulla era sufficiente, solo gli operai erano troppi: ne venivano da tutte le parti, tutti volevano partecipare alla costruzione del “Sipatela” (ospedalino) dove sarebbero nati i loro bambini.
“Cosa ci facciamo con tutti questi bambini” ci lamentavamo “in Italia con quattro o cinque operai ci si fa un condominio. Abbiamo bisogno di cemento, ghiaia, ferro per le fondazioni e non ne vedo”. “Falli lavorare tutti diceva la superiora erano i chierichetti di don Marzio di vent’anni fa, altro ferro e cemento arriveranno; la ghiaia torneremo a prenderla, è qui ad appena trenta chilometri, poi vedrai che il camion sarà qui dalla città”. “Da quale città deve arrivare il camion con cemento e ferro?” chiedevamo a don Marzio. “Da Livingsotne che è qui a 260 chilometri. La stessa strada che abbiamo fatto noi per venire qui. Non c’è un’altra città”. Queste risposte ci disorientavano un po’. Intanto cercavamo di gustare la gioia nel vedere gli inizi del lavoro: gli scavi per la fondazione, le prime carriole di cemento e ghiaia che venivano rovesciate negli scavi, la soddisfazione nel vedere gli inizi di una bella opera: il reparto maternità dell’ospedale missionario di Schili!”. Quegli scavi, quel cemento, quel lavoro esprimevano nell’insieme il gesto generoso che e solidale di tanti benefattori, noti e anonimi, che con noi hanno ritenuto realizzabile quest’opera. Pensavamo, durante lo svolgersi dei lavori, alle tante persone che con gioia avevano portato le offerte in parrocchia. Chi ha staccato generosamente un assegno di 5mila euro, o un bimbo accompagnato dalla madre, che ha consegnato una busta con 50 euro, pregandoci di darli al bambino più povero. Questa gara di solidarietà ha portato a raccogliere la somma di 64mila euro. Che dovrebbero essere sufficienti. Questo gesto ci lega a quella popolazione così lontana, ci ha fatto sentire fratelli con persone mai viste, e che pure sentiamo così vicine. La mattina che iniziammo i lavori e benedicemmo il terreno sul quale sarebbe sorto l’edificio, il loro “Induna” (il capo villaggio) ci ha chiamati “buoni samaritani”. Don Marzio ci ha spiegato il contenuto del discorso, fatto davanti a tanta gente accorsa per assistere alla benedizione, solo più tardi. Fortunatamente per noi, altrimenti ci saremmo sentiti molto imbarazzati. Occorrerebbe fare ben altro e tanti di più per sentirsi tali.
Giuseppe, Ivana e Daniele