Allora io ero ancora un bambino. Tornavo a casa da scuola verso mezzogiorno, accendevo la tv e guardavo il canale nazionale, allora l’unico canale disponibile, che trasmetteva un programma chiamato “Immagini dalla battaglia”
– “Buongiorno morte”. Ripeto a me stesso questa frase ogni giorno, da tre anni, da tre guerre. Me la ripeto con tutta la soddisfazione di cui sono capace, perché la morte è la cosa più vicina a me, più ancora di me stesso. La morte non è più un evento straordinario.
E’diventata un’abitudine che ho imparato a conoscere sin da bambino. Avevo sette anni quando ho visto il taxi che andava verso casa di mio nonno con la bara di legno sopra. La bara avvolta dalla bandiera irachena, sulla quale una scritta nitida, in nero, recitava: Il martire eroe Ahmad Nagem Gaber. Ho visto mia madre in lacrime correre verso il taxi e cadere al suolo. Il corpo nella bara era quello di suo fratello, mio zio. Accadeva durante la guerra tra Iraq e Iran.
Allora io ero ancora un bambino. Tornavo a casa da scuola verso mezzogiorno, accendevo la tv e guardavo il canale nazionale, allora l’unico canale disponibile, che trasmetteva un programma chiamato “Immagini dalla battaglia”, preceduto da quindici minuti di letture coraniche. Il programma mostrava video dal fronte. Al fronte mio zio morì. C’erano immagini di morte, la morte che entrava in casa in silenzio, per altri quindici minuti. Cercavo di dimenticare quelle immagini fino all’inizio dei programmi per bambini.
La mia infanzia è stata sporca, brutta. Vorrei dimenticarla, ma non ce la farò. Finì la guerra contro l’Iran, e un nuovo, inutile conflitto era già alle porte: la guerra contro il Kuwait. Ancora morte, ancora asprezze. Non fu più la
morte al confine, ma nella città. La morte vagava per le strade, nei vicoli, attraversava i ponti che collegano le due parti della città, li spezzava, devastava ogni cosa avesse un legame con la vita. Poi finì la guerra, e al suo posto cominciò l’embargo, che mi presentò una nuova morte, sconosciuta, barbara e medievale. Come immagini di secoli fa. Povertà, carestia, uranio, dittatura, profughi. Il mio rapporto con la morte sarebbe continuato, con nuovi significati, quando Bush annunciò la ‘sua’ guerra contro l’Iraq. La morte ha preso ad assediarmi con tutta la sua abilità. Vedere con i propri occhi i soldati americani che uccidono non è vedere il programma Immagini dalla battaglia.
Il terrore di una bomba che esplode in un mercato nel centro di Baghdad all’ora di punta è un terrore universale, che colpisce tutte le creature. E’ la morte inutile, gratuita, che arriva tra i pomodori, la verdura, la carne
troppo cotta. Non c’è modo per descriverla, per definirla. Accade, e prende il ritmo dell’evento quotidiano.
Il suo sanguinoso ripetersi l’ha resa familiare ai cittadini di Baghdad, città che la respira e l’alleva nel suo grembo in fiamme. Anche le notizie si adeguano, le ‘breaking news’ di autobombe che esplodono uccidendo cento persone in una volta. I cadaveri sparsi attraggono le macchine fotografiche, i fotografi sono spettatori della morte che procede lenta tra la folla, vestita di rosso, e di nero.
La sua sentenza è senza appello, il suo cammino immutabile. Mi dirigevo verso l’unico posto che considero sacro nella mia vita: l’Accademia di Belle Arti, in uno dei più bei quartieri di Baghdad. Era l’ora di punta, e di fronte all’università un’autobomba esplose. Non parlerò di quanto successe, di come la ragazza volò in aria, tra la sorpresa e il terrore. Non avevo mai visto volare una ragazza. La morte l’aveva sollevata in volo.
Aveva ciò che tutte le ragazze della sua età hanno, in qualsiasi parte del mondo. Ciò che aveva di diverso era che lei viveva a Baghdad, la città che ha la morte al suo fianco. Lasciai Baghdad per Damasco, ma so che tornerò presto. Anche se mio zio è morto, e con lui un pugno di altre persone che amavo, voglio rimanere il
bambino che conosce la morte e non vuole più dormirle accanto.
di Nezar Husain e Karim Fael
Testo raccolto da Naoki Tomasini