– La Città Invisibile è il titolo del libro presentato lo scorso 25 aprile al Teatro del Mare di Riccione. Quasi pronto per la pubblicazione, verrà distribuito nelle librerie alla fine del mese di maggio, includendo 18 racconti tratti da lunghe interviste nel circondario di Rimini a testimoni della guerra, di cui sono apparsi alcuni estratti nei numeri precedenti de La Piazza.
La Città Invisibile è stato anche un progetto sociale, culturale e artistico che, partendo dalla ricerca storica e dalla raccolta delle testimonianze e arrivando a compimento con l’uscita del libro, ha fin qui perseguito l’obiettivo di condividere (come recita il titolo completo) “segni, storie e memorie di pace, pane e guerra” con le nuove generazioni, attraverso forme e spazi del loro presente: lo spettacolo teatrale, replicato fin qui 4 volte, e il sito internet, con una media quotidiana di 50 accessi da tutto il mondo.
Anche durante la presentazione scenica del libro (con gli attori Alberto Caramel e Massimiliano Poli e con la regia di Davide Schinaia), gli interventi dell’autore del progetto, Fabio Glauco Galli, si sono intervallati con alcune delle risposte date dai testimoni alla domanda conclusiva di ogni incontro: “se potesse parlare con un ragazzo che ha ora l’età che lei aveva allora, che cosa gli direbbe?”.
Mentre la guerra è tornata da qualche anno sull’orizzonte delle politiche plausibili, in un presente sempre più complesso e in un futuro altrettanto incerto, commemorare la Liberazione significa anche interrogarsi su come perpetuarne il significato, al di là dell’incredulità e dell’indifferenza che spesso inibisce ogni confronto tra generazioni che, seppur lontane, travasano e rinnovano l’una nell’altra valori e priorità del loro convivere.
E’ vero, il mondo di luoghi, incontri, affetti e tragedie che ogni persona serba in sé resta invisibile agli occhi di chi non li ha convissuti. Come, tra i tanti, confessa Athos: “Se potessi parlare della guerra a un ragazzo che ha ora i vent’anni che io avevo allora, vorrei tanto che capisse, davvero, cosa sia stata, ma si può essere compresi, davvero, solo da chi ci è passato, da chi ne è uscito vivo. I giovani di oggi la vedono alla televisione, mentre si combatte altrove, e non possono capire cosa significhi esserci dentro ed avere come unico obiettivo quello di sopravvivere. Io stesso ho smesso di raccontarla, perché chi mi ascolta non può crederci, non può spingersi a pensare ad un’esperienza così atroce. E’ troppo lontana dal nostro presente. E quel che ieri è successo davvero, oggi, finisce per sembrare inverosimile”.
Eppure diventa essenziale ricostruire questo mondo personale, questa città invisibile, quando si intreccia ad un’esperienza collettiva, quella della guerra, dal cui rifiuto si è edificato fin dalle premesse, valore su valore, come mattoni di una nuova casa comune, il nostro reciproco modo di accettarci e conviverci.
Per evitarne la follia, negli effetti, come ricordano Dino (“Per capirla davvero, la guerra, bisogna vederli davvero, i morti. Bisognava essere lì, nella terra di nessuno, mentre i soldati si falciavano gli uni con gli altri. Di continuo. Ma poi, i loro cadaveri gonfi, in fila nei fossi, con i capelli ancora mossi dal vento, sembravano tutti uguali”) ed Ennio (“Bisogna soprattutto guardare a chi resta sullo sfondo, alla gente comune, per capire che la guerra prende tutto anche delle loro vite, perfino le cose più semplici, spesso anche la vita delle persone a cui si vuole più bene, come a me che, neanche maggiorenne, ho perso mio padre sotto una bomba”).
E per evitarne, soprattutto, le cause, come è nell’auspicio di Germano (“La guerra è la cosa più brutta che esista e, prima ancora dei morti che provoca, è brutta perché ci viene inculcato un odio innaturale verso gli altri popoli, quando invece siamo tutti esseri umani. Quel martellamento continuo che capitò alla mia generazione, quando eravamo ragazzini, ci fece credere di essere superiori: noi, l’Italia, la Roma antica, l’aquila imperiale. Le altre erano razze inferiori. Ed invece non è così”) e nel giudizio di Frangiotto (“Mi viene da pensare a quello che è un tumore per ciascuno di noi: qualcosa di irreparabile, di tremendo, che cambia radicalmente tutta la tua vita e quello che ti attende. Quando quel tumore colpisce un’intera società, quella è la guerra. E non mi riferisco solamente a quelle che si combattono con le armi, ma a tutte quelle situazioni, ovunque nel mondo, in cui alle persone manca il necessario, l’indispensabile, per arrivare ad avere un domani. Non dovremmo mai dimenticarcene”).
E’ vero, non dovremmo mai farlo. E prima ancora che un dovere, dovrebbe essere un’espressione della necessità di un comune sentire. Anche e soprattutto nei cuori di chi, questa memoria condivisa, l’ascolta e la preserva nelle nuove forme del tempo in cui vive. Perché è l’unico modo affinché sopravviva a chi serba in sé quelle città invisibili. E, con loro, sopravviva il valore di ogni persona che riesca, pur nella diversità e nella distanza, a riconoscersi nella storia di un’altra, nella sua città invisibile. Ora come allora, qui e altrove. Perché, questa domanda, contro ogni conflitto, la storia degli uomini non ha mai smesso di porgerla.
L’intero progetto è stato possibile grazie alla Fiducia di ogni testimone intervistato, al Contributo del Comune di Riccione, al Patrocinio della Provincia di Rimini e dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna, alla Collaborazione con l’Istituto per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea della Provincia di Rimini, con l’Associazione Riccione Teatro, con il Laboratorio Maan Ricerca e Spettacolo e con Fulmino Edizioni, al Sostegno di Geat Spa Multiservizi, della Cooperativa Casa del Popolo di Riccione, di Iabadabadu Felice di comunicare, de La Piazza della Provincia e di Arci Rimini, oltre all’Incoraggiamento da ciascuna delle persone e famiglie che hanno scelto di contribuirvi attraverso l’azionariato popolare.
di Fabio Glauco Galli