E’ ritornato a Rimini solo da pensionato. Uomo colto, scrittore per passione, dirige la rivista “Critica penale”. Ha 60 anni di vita e la edita il riminese Panozzo. Dice: “Mi considero un uomo di destra, che dal 2001 non la vota più perché becera: la sinistra non mi piace e la destra non mi piace più. Mentre Berlusconi è il punto più basso alla quale è pervenuta la Repubblica”
– “Per evitare conflitti d’interesse ho sempre esercitato la mia funzione fuori Rimini”. In questa frase c’è il senso dell’uomo Giulio Cesare Romano Ricciotti (vuol essere chiamato solo Romano, per doverosa modestia, dice). Magistrato in pensione, parlare con lui si ha una certezza: si ha a che fare con una persona per bene, un galantuomo.
Dice: “Sono un vecchio reazionario, che rivendica il diritto di essere chiamato vecchio e non anziano. Vecchio reazionario come assertore di una rivoluzione conservatrice. Penso a intellettuali come Spengler, Jung, Schmitt. Oramai l’unica idea viva, per chi non voglia iscriversi al pensiero unico liberale, è la dottrina sociale della Chiesa (Rerum Novarum, Quadragesimo Anno). Mi considero un uomo di destra, che dal 2001 non la vota: la sinistra non mi è mai piaciuta e la destra non mi piace più.
Il berlusconismo è il punto più basso al quale è pervenuta la Repubblica italiana: negazione dello Stato, negazione della giustizia. Mi viene in mente quel miliardario che, servito male dal cameriere, compra il ristorante per poterlo licenziare”.
Ricciotti appartiene a una famiglia presente nella storia recente di Rimini. Il bisnonno Oreste, marinaio e garibaldino, sua figlia Ernesta, terziaria domenicana, ostetrica, aiutò a nascere migliaia di riminesi, Guido, pittore di marine, grande colorista.. Il babbo, Virgilio, era ragioniere libero-professionista. Fece la marcia su Roma, il babbo. Col fascio al potere, non perdette il senso critico: parlar male dei gerarchi e dire la propria. Spesso lo andavano a trovare i carabinieri per chiedergli moderazione. Così prende appuntamento con Mussolini e va, con altri, a Roma per le proprie rivendicazioni. Ne parla con lui, che, da uomo di potere, lo guarda perplesso. Poiché non cambiava nulla, prese armi e bagagli e andò in Venezuela senza mezzi. Siamo nel 1928. Diventa benestante. Torna in Italia prima del secondo conflitto mondiale, dopo l’appello di Mussolini. Ma non si iscrisse più al fascio. Seguì però i destini della Repubblica di Salò ed ebbe un piccolo ruolo, commissario prefettizio di Sermide (Mantova).
Settantasette anni, due figlie, tre nipoti; per 40 anni, Romano Ricciotti ha fatto il magistrato fuori: Codigoro, Ferrara e Bologna (fino alla pensione, nel ’97). Pubblico ministero e giudice istruttore. Per un breve periodo fu anche giudice fallimentare. Ricorda: “Il giorno dopo, iniziarono ad arrivare tanti inviti”. Sempre doverosamente declinati.
Perché non ha fatto il giudice a Rimini?
“Per non avere incontri professionali con i miei parenti che lavorano in città. Sono del parere che un giudice non può svolgere il mestiere dove è nato e cresciuto. E meno che mai a Rimini, città felliniana e scanzonata. Direbbero, i riminesi: ‘L’è che pataca ad Ricciotti’. Ma è molto mancata, Rimini, a me e a mia moglie. Ci si sta bene, ma delude per la mancanza di senso civico”.
Giudicare significa decidere della vita degli altri, duro?
“Quando ero pubblico ministero, ero temuto perché se portavo qualcuno in giudizio costui era quasi certamente colpevole, in quanto, se avessi avuto dubbi, avrei chiesto l’assoluzione. E la soddisfazione più bella per un giudice è proprio quando c’è assoluzione. Lo stesso vale per il pubblico ministero che, nel nostro ordinamento, deve tenere in considerazione le ragioni dell’imputato. Questo principio, pur presente nel codice di procedura penale, è oggi alquanto negletto nel costume giudiziario. La condanna, in definitiva, non fa mai piacere, anche se doverosa, specialmente se severa.
Soprattutto nel campo minorile (dove sono stato sostituto e poi capo della Procura minorenni di Bologna), il pubblico ministero è un vero promotore di giustizia. Risale al 1934 il principio per cui si deve cercare il recupero del giovane, qualunque delitto abbia commesso. Questo si ottiene sia con la condanna, sia rinunciando alla condanna. E’ un modo per esercitare la giustizia con la ‘G’ maiuscola. Per gli adulti invece occorre buon senso nella commisurazione della pena e nel giudizio di pericolosità”.
Ricciotti è autore di saggi giuridici come La giustizia penale minorile e Gli stupefacenti, pubblicati con la Cedam di Padova e di politica giudiziaria, come La giustizia in castigo, pubblicato con Volpe. Dagli anni ’90, è direttore di “Critica penale”, trimestrale di diritto, procedura penale e criminologia. La edita Panozzo, prestigiosa casa editrice riminese.
Con Ricciotti è impossibile non parlare della giustizia. Risponde: “Diciamo che è meglio di come viene descritta. La sua indipendenza è essenziale, necessaria per un ordinato vivere civile. I magistrati non meritano molto, sono i figli della loro epoca. Ma le loro prerogative (dipendenza solo dalla legge, inamovibilità) sono sancite non nel loro interesse, bensì nell’interesse della collettività”.
La giustizia italiana non è quella descritta da Berlusconi e dai suoi, che hanno lavorato contro di essa. E’ significativo che Marco Travaglio, uomo di destra, sia costretto a scrivere, in difesa della giustizia, su “l’Unità”.
A chi gli chiede quali pensatori gli hanno fatto compagnia, argomenta: “Una folla. I Quattro Evangelisti (Giovanni: “in principio erat verbum”), Aristotele, San Tommaso, Orazio (“Exegi monumentum aere perennius”), Virgilio (“Parcere subiectis et debellare superbos”), Dante, Petrarca, Shakespeare, Leopardi (“O patria mia, vedo le mura e gli archi … ma la gloria non vedo”), Foscolo (“E l’ossa fremono amor di patria”), Gentile, Dostoewski,j (“Se Dio non esiste, tutto è possibile”), Joseph de Maistre, Pio XII, Andrè Maurois, Anatole France, Marcello Veneziani quando scrive libri e non articoli di giornale”. E quanti ne dimentico, povera memoria mia”.