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Romero, messa ancora da finire

Redazione di Redazione
15 Giugno 2007
in L'opinione
Tempo di lettura : 3 minuti necessari
A A

– Padre Turoldo ricorda monsignor Romero: “Nessuno è andato a terminare quella messa”.

“Amico, qui ti devi fermare. E medita. E rileggi. E cerca; anzi, cerchiamo di capire: perché siamo tutti coinvolti. È intervenuto Dio, ed è intervenuto direttamente, intenzionalmente. Qui non è stato un incidente sul lavoro, come non è stato un incidente sul lavoro la condanna a morte di Cristo. Qui c’è tutto un progetto che continua. È Dio che vuol farsi capire.
Non lo ha colto (parlo naturalmente del vescovo Oscar Romero) per una strada; si potrebbe dire: non fosse passato per quella strada! Non lo ha colto in un salotto; uno potrebbe dire: non fosse andato in quel salotto! Dio non lo ha colto mentre teneva una conferenza: poteva non accettare, oppure trattare un tema asettico.
Invece l’ha colto mentre celebrava. E non poteva non celebrare. E celebrava in un ospedale. E stava con il calice in mano. E aveva appena detto che in quel calice c’era del vino in attesa di farsi sangue. Non sapeva neppure di essere un profeta così incombente. Perché, a finire la consacrazione questa volta, più che le sue parole, sono state le pallottole di altri cristiani, di poveri killers, come nel Getzemani o nel Litostrato. Sempre così: poveri soldati che non sanno quello che fanno. Mentre lo sanno i capi, i capi, sì lo sanno! E per essi sono di difficile applicazione le stesse parole di Cristo: “Padre, perdona perché non sanno…”. No, i capi lo sanno, lo sapevano, e lo sapranno: la storia lo conferma.
Invece non so se tutta la cristianità lo sappia, cioè abbia capito che qui è intervenuto Dio stesso. Perché non si è mosso nessuno: eccetto, naturalmente, i poveri. È stata stroncata una messa, e nessuno è andato a terminarla. Pure in mezzo a tanti viaggi! E non occorreva neppure fare discorsi: bastava appunto andare. Dire solo: un fratello nell’episcopato è stato ucciso mentre celebrava, perciò noi andiamo a terminare la messa. Bastava solo questo. Forse il mondo avrebbe cambiato faccia. O almeno certo i poveri non si sarebbero sentiti così soli. Perché poi, non si trattava neppure di un assassinio sacrilego, infatti non era ucciso un vescovo perché vescovo, ma è stato ucciso un vescovo perché “si è fatto popolo”. Suor Teresa dice che i poveri non hanno voce: Romero era diventato la voce dei poveri. (…)
E così, per me, dopo Papa Giovanni, dopo il concilio, la morte di Romero è il più purpureo e squillante segno dei tempi: Dio è intervenuto a tempo giusto, sull’uomo giusto, nel momento più santo, quando si consumava sul mondo la passione di suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, Amen. Ed è certo un segno ancora più grande dei precedenti. Ma come ricordiamo che non si è avuto il coraggio, a concilio aperto, di proclamare santo il confessore di Cristo Giovanni, mentre il popolo continua a venerarlo e a crederlo santo in virtù di nessuna organizzazione; così oggi non si ha il coraggio di proclamare santo il vescovo Romero ucciso con il calice in mano, in quanto, si dice a Roma, non è morto per la fede. Quasi che morire per la giustizia non sia un morire per le opere della fede: quasi che, infatti, senza le opere della giustizia e della pace e dell’amore possa dirsi viva una fede! Cioè, non ci siamo accorti che, proprio questo è il segno che una chiesa è vera e vive: se c’è qualcuno che dà il sangue per il povero, per il popolo di Dio. E, dunque, non è questa la fede? Romero, santo vescovo della chiesa di Dio, prega per noi: perché si capisca”.

(da Adista nn. 2018-2019-2020 del 16 marzo 1981)

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