Ciò a cominciare dall’avvento del fascismo, il regime che fu, per la democrazia, letale. Non credo infatti che, alla ricerca delle cause del totalitarismo mussoliniano, si possano sottovalutare le due scissioni che, nel 1921 e nel 1922, indebolirono il movimento operaio italiano di fronte al pericolo reazionario. Ci furono, naturalmente, anche altre cause, ma quelle due scissioni giocarono un ruolo decisivo.
La prima scissione, come è noto, fu quella che fecesorgere a Livorno, nel gennaio 1921, il Partito comunista d’Italia. Contiene una parte di verità tutta una letteratura agiografica, di ispirazione togliattiana, che la spiegò in termini di insofferenza dei giovani socialisti italiani per l’inconcludenza del verboso rivoluzionarismo socialista. Ma quella letteratura presentava come creatura di Gramsci quel Pci del 1921 che, invece, era in mano a un fanatico ingegnere napoletano, Bordiga, che disprezzava la ricerca del consenso popolare, tutto affidando alla disciplina più ferrea e all’ubbidienza cieca agli ordini dei dirigenti; e per di più non seguiva, quel Pci, la saggia indicazione di Lenin, che dirigeva l’Internazionale comunista: alleatevi con il Psi, dal quale siete usciti, per fronteggiare e sconfiggere il comune nemico, la reazione fascista.
E il Psi, dal canto suo, cacciava dalle proprie file, nell’ottobre 1922, la corrente di Turati e Matteotti, che cercava di formare contro il fascismo un argine che impedisse il trionfo di Mussolini e dei suoi, salvando le istituzioni parlamentari (Mussolini al potere, a proposito della Camera dei deputati: avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli ?). Quando Mussolini, il 29 ottobre 1922, divenne presidente del Consiglio attraverso la pagliacciata della cosiddetta rivoluzione fascista, e il re Vittorio Amanuele III di Savoia non fece nulla per fermare con l’esercito le violenze e la sovversione fasciste, Pci e Psi non si scomposero. Per loro non cambiava nulla: che si trattasse di Mussolini o di Giolitti o di Bonomi, si trattava sempre di capi del governo “borghesi”; con la rivoluzione attuata dalle forze del proletariato il potere della borghesia capitalistica sarebbe stato spazzato via e sostituito dal potere proletario, come era accaduto in Russia. Non ci fu nemmeno la più pallida percezione della differenza abissale tra l’Italia, nazione costruita nel solco della tradizione liberale di Cavour e della tradizione democratica di Mazzini e Garibaldi, e la Russia, paese feudale che non aveva alle spalle nemmeno un’ombra di libertà politica, e nella cui storia non erano mai comparsi uomini come, appunto, Cavour, Garibaldi e Mazzini.
Fu così che il frazionismo e l’estremismo di sinistra fecero il gioco della destra, allora rappresentata dai fascisti. In tempi recenti è accaduto qualcosa di simile. Nel 1998 il Partito della rifondazione comunista giudicò il “borghese” governo Prodi come l’equivalente del “borghese” governo Berlusconi del 1994, e fece il gioco della destra, determinando la caduta di Prodi.
Grazie a questa pensata di Bertinotti, l’Italia dovette subire tra 2001 e 2006 una politica di incoraggiamento all’evasione fiscale (i condoni del Tremonti); di cultura del convivere con la mafia, come disse un ministro berlusconiano; di attacchi contro la magistratura, delegittimata ed indebolita, perché accusata di complicità con l’accanimento delle tante “toghe rosse” contro le imprese del presidente del Consiglio; di riconfermato monopolio dell’informazione che più conta, quella televisiva, nonostante le critiche dell’inquilino del Quirinale, l’onesto Ciampi; di devastazione dei conti pubblici, con relativo disastro del debito pubblico; di complicità con una guerra, quella contro l’Iraq, giustificata con la fabbricazione di menzogne e destinata ad aprire la strada di Bagdad ai terroristi di Osama Bin Laden. Eccetera eccetera, perché non si contarono i guasti antiliberali inflitti al costume, alla cultura, alla separazione dei poteri, alla competitività dell’economia italiana.
Bertinotti si è poi reso conto della gravità dell’errore commesso, ma non mancano oggi altre frazioni e frazioncine della sinistra ammalate di quella stessa malattia infantile del comunismo: l’estremismo. Siamo ancora una volta daccapo: tu puoi essere di sinistra quanto vuoi, ma salta sempre fuori qualcuno che è più sinistra di te.
di Alessandro Roveri Professore di Storia contemporanea all’Università di Ferrara