IL PERSONAGGIO
di Angelo Chiaretti
– “Alla Chiarissima Comunità del Monte di Diana (Mondaino). Abbiamo ricevuto l’invito scritto al vostro Latinus Ludus. Dove si mangia, lì sono anche Roma e Frusaglia. Con Pasqualon (il poeta pesarese Odoardo Giansanti) dicevo: “Mi piace mangiare, animali ruspanti, carni vaccine e salate, tordi, merli, ma sempre senza pagare. Vostro da sempre. Fabio Tombari”
– Con queste parole FABIO TOMBARI (Fano 1899-Rio Salso di Mondaino 1989), al volgere degli oltre dieci anni da me trascorsi con lui ed ANGELA BUSETTO (sua moglie) all’ombra del grande ippocastano che proteggeva la casa di Rio Salso, ribadì più volte la precisa volontà di mettere mano ad una nuova opera letteraria che egli stesso intitolò “Le greggi d’oro”, poiché ispirata ai fulgidi cespugli di ginestre che, affacciandosi al muraglione della Porta di Sotto di Mondaino, osservava nella sottostante Valmala come se si trattasse di tante pecore al pascolo.
Fabio Tombari desiderava che Mondaino diventasse “Il paese del formaggio”!
E per essere più convincente amava ripetere che anche il celebre Giovanni Pascoli, quando cercava buoni prodotti caseari, scendeva lungo la strada dei Forcuini fino a Rio Salso dalla vicina Urbino, dove si trovava in collegio presso i Padri Scolopi per compiervi gli studi.
Il menabò, cioè le linee portanti dell’opera, avrebbe fatto leva sui seguenti punti:
a) che Angela Busetto, “gallina padovana” (come amava definirsi) trapiantata a Mondaino, e Fabio Tombari, fanese figlio di barbiere, si sposarono a Mondaino nella Chiesa parrocchiale di san Michele Arcangelo il giorno 27 ottobre 1934.
b) che si conobbero in un giorno di sole, quando a Fabio si guastò l’automobile (Angela è sempre stata convinta che lo fece apposta) proprio davanti alla grande casa dei Busetto: lui bussò alla porta dicendo pomposamente “Sono Tombari!” Ed Angela, con altrettanta fierezza, rispose “Ah!”, dimostrando volutamente di non conoscere sì chiara fama, ma da quel giorno non si lasciarono più.
c) che quella coppia elegante di sposi, il mercoledì, giorno di mercato, amava passeggiare per il paese amato: lui già affermato scrittore, lei slanciata figlia di possidenti benestanti di origine ebraica. Li accompagnva questa battuta: “Siamo come Mosè ed Aronne”: l’uno (Fabio) balbuziente ma ispirato dal cielo, l’altro (Angela) loquace e forte condottiero.
d) che Angela e Fabio andarono ad abitare a Rio Salso di Mondaino nella sognante casa lambita dai due ruscelli. Qui si facevano spedire la corrispondenza a “Rio Salso di Pesaro” (come si sa, la frazione è divisa fra i comuni di Tavullia, nel Pesarese, e di Mondaino, in Romagna) solo perché il postino di Tavullia, di là dal ponte, consegnava la posta tutti i giorni, mentre quello di qua lo faceva si e no una volta alla settimana!
e) che la Valmala de “I ghiottoni” e delle altre opere di Tombari è la Val Mala di Mondaino, dove, oltre che nella Valle dell’orso (come Fabio chiamava il vicino e Fosso del Barocco), Angela e Fabio andavano ad ispirarsi…
f) che occorreva “legare con un ponte” (sono parole di Fabio) i comuni di Mondaino e di Fano, celebrando i fasti di quando, nel lontano 1585, il nostro piccolo castello faceva parte della giurisdizione fanese, come dimostrano molti cognomi mondainesi (Morganti, Nardi, Palazzi, Bertozzi ecc.).
g) che la gastronomia si incontrasse con la medicina naturale (piatto forte sarebbero stata le celebri ricette di Angela contro ogni tipo di malattia) e la spiritualità (Fabio ed Angela praticavano una fervente fede steineriana), lungo il filo rosso che lega il formaggio al latte, simbolo di saggezza, ed al miele, simbolo di giustizia.
h) che il libro si concludesse con la battuta: “Mondaino è il chiodo d’oro al quale ho appeso il cappello di scapolo felicemente”.
Oggi, forse, è giunto il momento di dar corso allo svolgimento dei tanti appunti presi sotto il grande ippocastano, degli “studi leggiadri e delle sudate carte” (la battuta, come si sa, è di Giacomo Leopardi).
Dunque, mi piace presentare un profilo di Fabio Tombari che il caro amico Sandro Piscaglia, compose qualche anno fa.: Fabio Tombari, nato nel 1899, ha fatto il ragazzo a Fano nella bottega del padre barbiere, ha studiato con poco metodo e ottimi risultati. Scavezzacollo! Lo diceva lui, ma?ci si può credere.
Era un maestrino giovanissimo quando la Patria lo chiamò a fare il ragazzo del ’99.
Il suo successo letterario, oltreché grande, fu precocissimo. Quando Fabio aveva 36 anni si aprì a Roma la Mostra Quadriennale d’Arte, che con quella di Venezia era la più importante dell’epoca fascista. All’ingresso principale della Mostra campeggiavano due busti in bronzo raffiguranti, quello a destra di chi entrava, Benito Mussolini, e quello a sinistra il giovane ed acclamato scrittore fanese.
Alla Romagna era così affezionato, che per la sua gente costruì un mito. Alla fine dell’Ottocento, con la statistica e con documenti scientifici, i romagnoli erano stati definiti delinquenti (un’eco dantesca del XIV canto del Purgatorio?). Questa nomea durò sino agli inizi degli anni trenta. Allora incominciarono a cambiare gli aggettivi: forte, anziché duro, passionale anziché violento, e incominciarono le ricerche che toglieranno ai romagnoli l’accusa di essere della legione che crocifisse il Cristo!
Fabio Tombari ha incominciato a scrivere le prime Cronache di Frusaglia a Casepio, una frazioncina del Montefeltro, dove faceva il maestro elementare; scriveva su un tavolo che aveva in camera da letto o nella stanza accanto, sulla cattedra dell’aula, quando erano usciti i suoi 33 scolari di tre classi. Scrisse poi I ghiottoni chiuso in un ambiente tutto per lui, solo per lui, nel Provveditorato agli Studi di Ancona. Il Provveditore aveva detto: “Non dategli nessun impegno perché deve scrivere”.
Scriveva con estro, dove si trovava, quando gli veniva e dove si poteva, quando era inviato speciale del Corriere della Sera aveva la suite nei grandi alberghi delle capitali. Nacquero I mesi ed Il libro degli animali. Scriveva con rigore, ogni mattina due o tre ore, solo, nella casa immensa di Rio Salso. L’Emma (che provvedeva alle faccende domestiche) non doveva entrare dove lui scriveva e la scopa non doveva far rumore e la moglie Angela doveva, in quelle ore, curare orto e giardino e la salute con lunghe passeggiate. Lucia Generali. Con l’aiuto dell’Angela, avrebbe poi curato la difficile impresa di dattiloscrivere. Al Rio sono nati gli ultimi sette od otto dei suoi quindici libri.
Prendeva sovente appunti, quando la memoria incominciò ad affievolirsi, dopo gli ottant’anni, ed usava la matita: negli ultimi tempi, e non gli piaceva, talora la biro. Ha scritto sempre con la penna intingendo il pennino nell’inchiostro del calamaio. Sembrava inchiostro, ma era luce. Per questo, quando leggi Tombari, capisci l’incomprensibile, perché il suo inchiostro era luce.
Era stato dotato dalla natura di un orecchio intonatissimo, era appassionato di musica, intenditore di musica. Gli piacevan l’Opera lirica, le operette e le canzoni belle. E aveva bella, delicatissima voce tenorile. Dotato di buona memoria, ricordava le parole delle canzoni e dei libretti.
Era conversatore amabile, spiritosissimo, non ha mai usato una espressione sgradevole o scurrile. Conferenziere brillante, capace di improvvisare, pieno di fascino nella persona e nella voce. Leggere Tombari fa contenti e rende più buoni e si allarga l’orizzonte, perché nell’Universo Fabio è di famiglia (ricordiamo il suo libro Tutti in famiglia). Il figlio secondogenito d’Iddio è lui, allegro e contento d’esser stato creato. E’ lui che con il suo sguardo cambia il mondo e chi guarda attraverso i suoi occhi, nelle luce di Rudolf Steiner (filosofo-teologo svizzero, fondatore dell’omonima corrente di pensiero spirituale n.d.r.) il mondo lo vede diverso. Chi continuerà a guardare con i propri occhi, dopo aver letto Tombari, vedrà variare il colore della luce che illumina Terra e pianeti, da grigia la vedrà trasmutarsi nei colori dell’aurora.
Fabio era alto, asciutto, riccioluto, solare, allegro, gioioso, canterino. Aveva un grande senso dell’umorismo: alcune delle sue vignette più azzeccate, il caricaturista Chiappòri le ha concepite a Mondaino, nella casa di Rio Salso.
Nei primi Anni Trenta era sbocciato a Roma, coccolato nei salotti principeschi, cocco del cavalier Benito, fece venire la cervicale alla signora Angela. Me lo disse lei che la gran piega che cresceva nel tempo nella parte alta del rachide, non era dovuta, come pretendeva il suo amato e ingenuo dottorino, all’artrosi cervicale, ma?al peso delle corna!
La gioia in quegli anni, che pur videro la morte del figlio Giovanni, era dovuta alla presenza della figlia Maria, una creatura di bellezza incredibile e di meravigliosa dolcezza, di cui soltanto il pittore Sora poté intravedere la sublimità. La serenità di quegli anni e di tutta la lunga vita di Fabio è stata d’essere felicemente sposato (” A Mondaino ho appeso il cappello di scapolo felicemente”, scrisse in confidenza al giovane scrivente): la signora Angela era una donna ricca di beni economici e spirituali ed una gran bella donna, una donna meravigliosa, eccezionale per un uomo eccezionale.
Alla fine degli Anni Trenta Tombari avvertiva le difficoltà e presentiva il peggio.
All’inizio degli anni Quaranta la tragedia bellica prima e la guerra civile poi. Non consolava il fatto che Galeazzo Ciano, per sopportare la prigione in attesa della fucilazione, avesse chiesto i libri di due soli autori, immensi, immensi entrambi: Platone e Tombari!
Fabio ha vissuto un lunghissimo, operoso crepuscolo nella discrezione e nell’ombra, confortato dai tanti amici delle Marche, della Romagna, del mondo. A loro dava tanto, frequentavano la sua casa poveri, poveracci, cattedratici universitari, vagabondi, ministri. Conversava con gli animali della terra, con quelli che vivono sugli alberi e nel cielo. Sapeva conversare e cantare con gli uccellini (si legga Il concerto fiorito), sfidare le nubi e le tempeste e i venti. E’ proprio lottando col vento che è morto. Nello spirito era giovanissimo, si recava ad una scuola elementare a parlare coi bimbi, non ricordava d’aver novant’anni e, sfidando il vento, questo l’ha sbattuto a terra e frantumato.
Era spavaldo, anche da giovane: appena cominciava una tempesta correva a mettersi l’impermeabile e si precipitava sulla spiaggia, là dove si è soli e si incontra l’Eterno. In testa aveva il fuoco e tanti riccioli. Ha cercato, ha scritto per tutta la vita. Cercava l’invarianza nel diverso, l’unità nel molteplice per ritrovarsi nell’Uno, per sentirsi pari, fratelli, per trovare quell’Uno che spiega tutto. E fiduciosi abbandonarsi alla bontà di quell’Uno che tutto conosce, che tutti noi ama, che ci darà la conoscenza, che ci mostrerà la luce. Quella luce che noi non vediamo, parzialmente uno solo tra gli uomini l’ha vista: Dante Alighieri nel Paradiso. Quando non vedremo più, ma conosceremo tutto è perché vedremo la luce (si legga il libro di Fabio, come un testamento, Ercole al bivio).
E’ difficile riuscire a dirlo, è difficile rappresentarcelo, ma questo pensava Tombari, questo era Tombari, quel signore asciutto che passeggiava solitario, conversando coi ramarri, incantato nel cielo, sul bordo del Rio Salso.