– “Quando sono arrivato alla CEI, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati”: Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l’arrivo di Ruini alla CEI, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello IOR, monsignor Paul Marcinkus, dall’arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel “ventennio Ruini”, segretario dall’86 e presidente dal 91, la CEI si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all’interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell’ascesa di Ruini sono legate all’intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un’altra chiave per leggerne la parabola si chiama “otto per mille”. Un fiume di soldi comincia a fluire nelle casse della CEI dalla primavera del ’90, quando entra a regime il prelievo diretto sull’Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all’anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi e fidati collaboratori, ad avere l’ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.
Ma il miliardo di Euro che arriva alla chiesa dall’otto per mille è solo una parte dei contributi che le pervengono sotto forma di finanziamenti diretti da parte dello Stato e degli Enti locali e mancato gettito fiscale: i 650 milioni per gli stipendi dei 22.000 insegnanti dell’ora di religione, altri 700 milioni versati dallo Stato ed Enti locali per le convenzioni su scuola e sanità, i finanziamenti di grandi eventi (tipo Giubileo, 3500 miliardi di Lire, e ultimo raduno di Loreto, 2,5 milioni di Euro), e infine il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano. Entrate che ammontano mediamente a circa quattro miliardi di Euro all’anno.
Di tutto questo denaro che arriva alla Chiesa dalle tasche degli italiani non è facile, per usare un eufemismo, sapere la destinazione o l’utilizzo. Per quanto riguarda il gettito dell’otto per mille è la stessa CEI a dichiarare che su cinque euro versati dai contribuenti, uno viene speso per interventi di carità in Italia e nel mondo. Gli altri quattro euro servono all’autofinanziamento. Prelevato il 35% del totale per pagare gli stipendi ai circa 39.000 sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di Euro che il vertice CEI distribuisce all’interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come “esigenze di culto”, “spese di catechesi”, attività finanziarie e immobiliari.
Recentemente Roberto Berretta, scrittore e giornalista di Avvenire, il quotidiano dei vescovi, scriveva in un suo libro intitolato “Chiesa padrona: “Chi gestisce i denari dell’otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici?. Quale vescovo per esempio, sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale, alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza? ? E, infatti, i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere”. Uno di questi, ad esempio, è Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: “I vescovi non parlano più, aspettano l’input dai vertici? Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato”. Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: “Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della CEI si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono”.
La Chiesa di vent’anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall’egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall’universo edonista delle TV commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefevbre. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di “scoprire” l’antimafia, con le omelie del cardinal Papalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l’impegno di Italo Calabrò contro la ‘ndrangheta. Dopo vent’anni di “cura Ruini” la Chiesa all’apparenza scoppia di salute. E’ assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l’agenda dei media e influisce sull’intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi delle vocazioni ha ridotto i preti da 60.000 a 39.000, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione. Il clero è vittima dell’illusoria equazione mediatica “visibilità uguale consenso”, come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d’inverarsi la terribile profezia lanciata trent’anni fa da un teologo progressista: “La Chiesa sta divenendo per molti l’ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l’ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo”. Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.
*Curzio Maltese, giornalista.
(L’articolo integrale può essere letto sul numero 78 del “Notiziario della Rete Radiè Resch” Dic. 2007)