CULTURA
– Ecco come il professor Angelo Chiaretti ha introdotto il lavoro.
– “Impicciolire per poter vedere, ingrandire per capire”: così il poeta Giovanni Pascoli (1855 – 1912), indimenticabile “Zvanin”, figlio della Romagna di fine Ottocento, annunciava al mondo la propria e rivoluzionaria teoria della conoscenza!
Proveniva da una terra povera, dove gli stenti producevano anarchia, socialismo e… strozzapreti; dunque i temi ed i personaggi delle sue opere si riferiscono ad ambienti di campagna (quasi sempre malinconica ed autunnale, per ricordare i numerosi e tragici lutti di famiglia ed affermare che “ora la mia casa è il cimitero”, dove un chicco di grano può anche produrre sette spighe ed il cinguettio del “passero saputo fra i rami irti del moro” rimanda all’agognato tintinnio di qualche moneta d’argento raccontato attorno al focolare.
Anche il mondo sentimentale era “senza pretese” (per dirla con una celebre canzone di Secondo Casadei dedicata alla Romagna) e bastava una panchetta di telaio su cui sedersi per far giurare l’amore eterno di una vita coniugale: la vita andava tessuta pazientemente, passando e ripassando con la spola sul pettine ed ottenerne quei torselli (i nostrani “turscel”) di tela ruvida con i quali confezionare biancheria, abiti e perfino il sudario funebre per avvolgere i propri cari defunti e riconsegnarli così, senza bara, alla nuda terra.
Tuttavia, in quella piccola aia dell’esistenza, la dolcezza poetica non mancava ed i pulcini pigolavano attorno alla chioccia con la stessa suggestione con cui le stelline della Costellazione delle Pleiadi brillavano (e brillano) nel cielo attorno a quella più grande e centrale!
Da quegli anni “molta acqua è passata sotto i ponti” (per dirla con Alessandro Manzoni) ed il nostro tempo appare lontano anni-luce da simili dimensioni, ma non è così: ancora qualche poeta “impicciolisce per poter vedere ed ingrandisce per capire”, agitando la cetra e facendola dolcemente dondolare nel vento.
Uno di questi eterni aedi è certamente Emilio Cavalli, che succhia avidamente dalla nostra Valconca la linfa ubriacante delle cose particolari e poi, con il rapido volo di un falco, s’innalza nell’empireo dell’universalità.
Il suo cuore è grande e mentre parla gli occhi guardano altrove, “più in là” avrebbe detto Zvanin, verso un passato fatto di emigrazione e di lavoro in miniera oppure verso un futuro dove il sole “ride calando” (Manzoni) sull’orizzonte per annunciare un nuovo giorno fatto di serenità e semplicità: rosso di sera buon tempo si spera!
Nella presente opera Emilio (chi conosce l’omonima opera di J. J. Rousseau – secolo XVIII – il nome è inequivocabile: “Nomina sunt anima rerum, sentenziavano gli avi) tratta la dolcissima e struggente storia di Rosa Michelini, un fiore meraviglioso e profumato, “aulentissimo” avrebbero detto Ciullo d’Alcamo (secolo XIII) e Gabriele d’Annunzio (secolo (XIX), sbocciato nella campagna di Levola, fra Montefiore, Mondaino e Tavoleto, in un villaggio fatto di poche case, toponimo di un’età romana che diede ville ed impianti termali a queste colline che hanno “quinci il mar da lungi e quindi il monte” (Giacomo Leopardi).
Il filo della vicenda scorre agile ed il lettore giunge alla conclusione con una tale rapidità e complicità da desiderare ancora pagine e pagine da gustare: da questo libretto, infatti, potrebbe scaturire un grande romanzo che nulla avrebbe da invidiare a quelli famosi e che sicuramente gioverebbe ad equilibrare la sciattezza (ma vorrei dire stupidità) di quanto circola in libreria od invade le nostre case attraverso i mass-media.
Auguro, dunque, ad Emilio Cavalli che, ancora una volta, il fruscio delle pagine delle sue opere possa accompagnare i silenzi e le contemplazioni di cui ciascuno di noi ha bisogno, affinché “rifatto sì come piante novelle/rinovellate di novella fronda” si senta “puro e disposto a salire a le stelle” (Dante Alighieri, Purgatorio XXXIII).
Angelo Chiaretti