– Come i meno giovani certamente ricorderanno, c’era una volta una sola televisione, quella della Rai-Tv democristiana, armata di una censura sessuofobica che misurava la lunghezza delle gonne e censurava spietatamente. Quella tv, tuttavia, apprezzava la cultura e non mandava in onda, in prima serata, soltanto i quiz di Mike Buongiorno, bensì anche sceneggiature storiche, commedie, opere, concerti. Era una moneta tutto sommato buona, quella che veniva messa in circolo. Poi è arrivata la concorrenza berlusconiana, protetta da un famoso editto di Craxi contro le sentenze di tre magistrati. Ed è cominciata l’era dell’audience: la gara a chi otteneva maggiori ascolti e di conseguenza maggiori investimenti pubblicitari delle ditte produttrici. Fu una corsa verso il basso. Come dicono gli economisti, la moneta cattiva caccia la moneta buona. La tv spazzatura sconfisse la tv buona, vellicando i gusti più plebei e pedestri delle grandi masse (che non sono affatto, come speravano i marxisti ortodossi duri e puri, di per sé stesse democratiche) .
Abbiamo così avuto il trionfo delle veline, del gossip, dei reality, dei grandi fratelli, delle tette e dei fondoschiena, delle barzellette. La tv è diventata una succursale dei giornaletti preferiti dalle parrucchiere per signora, con le loro noiosissime storie sul vip che ha cambiato compagna e sulla vip che ha cambiato compagno. La vita reale è rimasta affidata alle rubriche di isolati eroi come Lerner e Santoro, di cui ci si chiede fino a quando dureranno.
Senza questa concimazione del terreno sul quale si forma l’opinione pubblica, un fenomeno come il berlusconismo diventa incomprensibile. Il caso è grave e preoccupante, perché si tratta del trionfo di quella sottocultura di cui è fatto quel che si può mettere insieme, nell’Italia di oggi, di fascistico. Sottolineo “fascistico”, non “fascista”. Gli storici capiscono e rispettano la differenza.
Mi spiego. Qualcuno, a torto, si è meravigliato del fatto che parecchi seguaci del nostalgico movimento “La Destra” di Storace, abbiano gridato “duce, duce” quando hanno visto entrare da loro Berlusconi, alla vigilia dell’annuncio della morte della CdL e della nascita del PdL. Nulla di più logico. Berlusconi stava per interpretare otto milioni (dice lui) di richiedenti le dimissioni di Prodi come altrettante voci di promotori del nuovo partito, al quale invece nessuno dei presenti ai gazebo aveva pensato. Ed ha dichiarato che il PdL nasce dal basso. Qui c’è qualcosa che non va, anche se, certo, milioni di figli della sopra accennata sottocultura televisiva non mancheranno di votare un giorno (che si spera lontano) per il PdL, ossia per il suo leader.
Il più grande storico delle origini sette-otto e novecentesche dell’antisemitismo nazista, l’ebreo tedesco-statunitense George L. Mosse, recentemente scomparso, ha operato negli studi sull’argomento una vera, salutare rivoluzione. Ha spiegato a tutti noi che il terreno ideale sul quale la malapianta dell’antisemitismo ha potuto vigoreggiare non è stato quello della maggiore intellettualità, bensì quello concimato dagli intellettuali di secondo o terz’ordine, che hanno dato vita alla tradizione völkisch, ossia nazionale-popolare (ed ha citato l’immagine dell’ebreo diffusa da un Felix Dahn o da un Gustav Freytag nella Germania dell’Ottocento).
Come si vede, i conti tornano. Ciò che di fascistico è oggi possibile mettere insieme attiene agli intellettuali di secondo o terz’ordine che ci vengono ammanniti dalle tv, privata e pubblica. Il fascismo come tale è morto, e di fascismo, oggi, non è dato correttamente parlare, nemmeno nel caso di Storace e della bella Santanché. L’aggettivo “fascistico”, nell’ Italia di oggi, rimanda piuttosto a un sottopensiero politico fondato sull’incarico di pensare per tutti, conferito a una persona già concentrante in sé una quantità sconcertante di potere economico e mediatico. Il sonno della ragione, come scrisse Goya, genera i mostri. Di quale natura possano essere i mostri di oggi, non sappiamo. Ma chi esercita la professione di storico ha il dovere di mettere in guardia i suoi compatrioti.
di Alessandro Roveri
Già Professore di Storia contemporanea all’Università di Ferrara