L’INTERVISTA
– Maurizio Pallante si occupa di politica energetica e di tecnologie ambientali. Su questi temi ha pubblicato diversi libri. Collabora con giornali e periodici.
– Perché secondo lei vanno rivisti i tradizionali parametri della crescita economica?
“Perché i segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita su cui si fondano le società industriali continuano a moltiplicarsi: l’avvicinarsi dell’esaurimento delle fonti fossili e le guerre per averne il controllo, i mutamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento dei rifiuti, le devastazioni e l’inquinamento ambientale. Non ultimo i venti di recessione economica mondiale”.
Il prodotto interno lordo (pil) non è un buon indicatore?
“Gli economisti e i politici, gli industriali e i sindacalisti con l’ausilio dei mass media continuano a porre nella crescita del pil il senso stesso dell’attività produttiva. Ma in un mondo finito, con risorse finite e con capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile, anche se le innovazioni tecnologiche venissero indirizzate a ridurre l’impatto ambientale, il consumo di risorse e la produzione dei rifiuti.
Queste misure sarebbero travolte dalla crescita della produzione e dei consumi in paesi come la Cina, l’India e il Brasile, dove vive circa la metà della popolazione mondiale. Né si può pensare che si possano mantenere le attuali disparità tra il 20% dell’umanità che consuma l’80% delle risorse e l’80 per cento che deve accontentarsi del misero 20 per cento”.
Va smontato il mito della crescita infinita?
“Sì, forse è arrivato il momento di smontare il mito della crescita, di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, di elaborare un’altra cultura, un altro sapere e un altro saper fare, di sperimentare modi diversi di rapportarsi col mondo, con gli altri e con se stessi.
Chiediamoci, ma che cos’è questa crescita? E’ la crescita dei beni e dei servizi di cui gli essere umani hanno bisogno per vivere sempre meglio? Se vai da qui a là in automobile e t’imbottigli in una coda chilometrica, consumi molto più carburante. Aumenta l’inquinamento dell’aria e dell’ambiente. Quindi fai crescere il pil. Ma questo non significa che migliora la tua qualità della vita. Anzi peggiora!”.
Lei è uno dei fondatori del Movimento per la decrescita felice. Di cosa si tratta?
“Il Movimento per la decrescita felice si propone di promuovere la più ampia sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti commerciali con l’autoproduzione di beni. In questa scelta, che comporta una diminuzione del pil, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture”.
Perché siete critici con la teoria dello sviluppo sostenibile?
“La prospettiva della decrescita felice è opposta a quella del cosiddetto sviluppo sostenibile, che continua a ritenere positivo il meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a proporre di correggerlo con l’introduzione di tecnologie meno inquinanti. Ad esempio, nel settore cruciale dell’energia, lo sviluppo sostenibile, a partire dalla valutazione che le fonti fossili non sono più in grado di sostenere una crescita durevole e una sua estensione a livello planetario, ne propone la sostituzione con fonti alternative.
Il Movimento per la decrescita felice ritiene che questa sostituzione debba avvenire nell’ambito di una riduzione dei consumi energetici, da perseguire sia con l’eliminazione di sprechi, inefficienze e usi impropri, sia con l’eliminazione dei consumi indotti da una organizzazione economica e produttiva finalizzata alla sostituzione dell’autoproduzione dei beni con la produzione e la commercializzazione di merci”.
La decrescita comporta una riduzione delle risorse e dei costi?
“Se la riduzione dei consumi energetici dovesse, ad esempio, conformarsi agli standard vigenti in Germania, si risparmierebbe fino ai due terzi delle fonti fossili attualmente utilizzate per il riscaldamento che rappresentano circa un terzo di tutte le importazioni. In prospettiva questa scelta farebbe diminuire di circa il 20% i consumi globali di fonti fossili a parità di comfort termico”.
Non ci sarebbe anche una conseguente riduzione dell’occupazione?
“No, perché la necessaria ristrutturazione del patrimonio edilizio comporterebbe sia una forte riduzione dei consumi che pesa sulla bilancia commerciale, riduce il pil, e comporta una forte crescita occupazionale nei settori tecnologici che accrescono l’efficienza energetica dell’edilizia. Se si consumano meno materie prime e si spende meno, il pil decresce. Ma, ad esempio, per ricavare risorse sostitutive dai rifiuti occorrono nuove professionalità e una maggiore occupazione che trasforma in redditi monetari i risparmi che consente di ottenere. Tutto questo vale anche per la riduzione dell’inquinamento ambientale. Anche in questi casi l’occupazione oltre ad essere quntitativamente rilevante, avrebbe straordinarie connotazioni qualitative e assolutamente opposte, ad esempio, all’esportazione delle armi”.