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Per una cultura della legalità, una nota pastorale

Redazione di Redazione
9 Giugno 2008
in L'opinione
Tempo di lettura : 3 minuti necessari
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– Non mi pare motivo di piccola soddisfazione, per un professore di storia moderna e contemporanea, vedere confermata da un illustre collega, il professore di procedura penale nell’Università di Pavia Vittorio Grevi, una propria tesi riguardante una questione giuridica. E’ quanto è accaduto al sottoscritto. Il quale non si sarebbe ricordato di tale concordanza di vedute, se il nuovo presidente del Consiglio Berlusconi non avesse, rivolto verso i senatori del Partito democratico, concluso la sua replica agli interventi nel dibattito sulla fiducia con l’esortazione a non essere subalterni, tra l’altro, «al giustizialismo».
Le due prese di posizione suddette sono queste. Nel luglio 2006 pubblicai sul “Ponte” di Piero Calamandrei un articolo intitolato Per una cultura della legalità: sul giustizialismo e sul garantismo, nel quale riportai un passo della nota pastorale del 1991 diffusa dalla Conferenza Episcopale Italiana per conto della Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace» intitolata Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese: una nota pastorale che mi era sembrata bellissima, ma che è stata dimenticata da tutti, Conferenza Episcopale compresa.
E, dal canto mio, affermai tra l’ altro in quell’occasione, che dell’accusa di giustizialismo, manovrata per anni da uno stuolo di conduttori della Finivest, sedicenti “garantisti”, in difesa degli indagati eccellenti della Casa madre, talvolta «furono investiti i magistrati stessi, colpevoli di avere applicato il principio dell’uguaglianza della legge per tutti (articolo 3 della Costituzione) e quindi definibili come «toghe rosse» quando esercitanti l’obbligatoria azione penale nei confronti di indagati eccellenti appartenenti al centrodestra [?]; talaltra ne furono bersaglio singoli esponenti o intellettuali di centrosinistra, accusati di voler fare “uso politico della giustizia”; talaltra un intero partito politico, sospettato di volere e sapere manovrare i giudici a suo piacimento.
Come si vede, lo spettro del giustizialismo è assai ampio e applicabile in una molteplicità di casi. Sta di fatto che, quando si tratta di magistrati accusati di avere tradito la loro deontologia ci si aspetterebbe la denuncia penale, ma questa non arriva mai». E concludevo auspicando la cessazione dell’uso di quel termine da parte degli esponenti del centro-sinistra, perché esso era funzionale ad un preciso scopo politico.
E che cosa ha scritto il professor Grevi sul “Corriere della Sera” del 1° marzo 2008, alla vigilia delle elezioni politiche? Ha affermato, in un articolo intitolato Non parlate di giustizialismo e garantismo: «E’ troppo chiedere che, nelle prossime discussioni sui programmi elettorali in materia di giustizia, si smetta di far leva su frasi prefabbricate (del tipo “rigurgiti di giustizialismo”) ma si ponga al primo posto l’esigenza della legalità?
E perciò ci si interroghi soprattutto su quali siano i mezzi migliori per raggiungere tale obiettivo? E’ troppo chiedere che si avanzino proposte concerete per assicurare l’efficienza e la tempestività dei processi, e quindi per evitare che tanto lavoro giudiziario sia travolto dalla mannaia della prescrizione? Tutto questo non è giustizialismo, è semplicemente giustizia».
Ripeto: tutto questo non mi sarebbe venuto in mente, se non avessi ascoltato il discorso di replica del nuovo presidente del Consiglio, con quella finale esortazione al Partito democratico a non essere subalterni al giustizialismo. Sarebbe bene che qualche esponente del Pd rispondesse su questo punto.
Dal canto mio, devo dire che, pur apprezzando i toni concilianti di questo Berlusconi di oggi, lanciato verso la conquista del Quirinale, mi ritengo iscritto al partito della diffidenza.
Non ho dimenticato la cacciata di Biagi e Santoro dalla televisione pubblica.
Secondo me qualche incontro a Palazzo Chigi si può fare, ma il vero confronto tra maggioranza e opposizione, per le eventuali auspicabili intese, deve avvenire alla luce del sole, ossia in Parlamento, a telecamere accese, affinché il cittadino sappia di che si tratta.
Siamo tutti stanchi di essere scavalcati.

di Alessandro Roveri
Libero docente dell’Università di Roma

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