L’evangelista Matteo gli fa dire la famosa frase: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Insomma, un conto è lo Stato e altro è la fede; un concetto antico ma troppo spesso dimenticato, perfino dalle alte cariche curiali.
In una società complessa come quella industriale ognuno ha un ruolo e lo deve giocare al meglio, un po’ come il rapporto tra figli e genitori. Quando per i pargoli è lecito chiedere, spesso per i genitori è un dovere rispondere no. Un atteggiamento educativo.
I banchieri sono accusati dagli imprenditori di non aprire i cordoni della borsa per aiutare le aziende in questo momento di crisi; anzi, le hanno completamente chiuse. I banchieri si difendono affermando che se non ci crede l’imprenditore nella propria impresa, a maggiore ragione non può chiedere che sia un altro a finanziarlo. A scommetterci.
E qui sale in primo piano una delle debolezze del capitalismo italiano: la sottocapitalizzazione delle imprese, tipica di una certa miopia. Molte imprese vivono la contraddizione di avere una proprietà ricca e una realtà propria povera. Tradotto in soldoni, significa che la proprietà ha attinto risorse per sé e i propri cari ( si spera non per il gioco, ma per le donne e per lo Champagne) quando le doveva investire nell’impresa. Nella crisi, come quella di oggi, le imprese soffrono la mancanza di liquidità mentre la proprietà non vuole sentire ragioni di rischiare quanto accantonato in beni negli anni delle vacche grasse.
Un esempio. Nel nostro territorio c’era (e c’è ancora) una blasonata azienda in crisi che non aveva più nulla da dare al mercato per la semplice ragione che negli ultimi 10 anni la proprietà non aveva fatto nessun investimento: né di tecnologia, né di uomini, né di mercati, né di prodotti. In compenso, i padroni avevano acquistato case, capannoni industriali, terre, appartamenti. Poiché erano sobri non si sono mai lasciati attirare dalle sirene di uno yacht. Risultato: 4 anni fa hanno venduto il marchio agli amici concorrenti. Ora fanno i signori, vivendo di rendita. Giusto o sbagliato?
La banca è un’impresa qualsiasi. Ha una proprietà (i soci), amministra i risparmi della clientela, senza contare che è vincolata da una serie di leggi e normative per tenere a freno la loro esuberenza come avvenuto con la speculazione finanziaria recente. Domanda: perché dovrebbe prestare danaro all’impresa senza le opportune garanzie? Lo può fare, può rischiare, se dall’altra parte c’è un imprenditore trasparente, motivato, che crede nel futuro del suo lavoro e della sua azienda. E ce ne sono di uomini di impresa con tale tembra.
Da parte sua l’imprenditore, come scrive l’economista Paul Samuleson, carismatico e saggio premio Nobel, è colui che acquista manopera e altri fattori produttivi per produrre e vendere beni. Denaro compreso.
Ci dovrebbe essere lo Stato a dar man forte alle aziende sane nei momenti di crisi e non solo. Lo dove fare in più modi: con gli ammortizzatori sociali, con i servizi, con il giusto governo delle aree industriali, spesso lasciate nelle mani degli speculatori. Con l’etica della responsabilità.