– Ho appena recensito, per “Europa” e per il mensile fiorentino “il Ponte”, il recente libro di Alberto Asor Rosa, italianista di fama e professore emerito della Sapienza di Roma, intitolato Il grande silenzio e pubblicato da Laterza sotto forma di Intervista sugli intellettuali concessa a Simonetta Fiori. Dato lo spessore di quel testo, mi sembra doveroso parlarne anche ai lettori della “Piazza”.
Secondo l’insigne storico della letteratura italiana, viviamo un’epoca nella quale si è consumata, nella seconda metà del Novecento, la rottura di una tradizione che risale all’Umanesimo, fondata sulle tre componenti dell’incivilimento moderno: la creatività individuale, una visione etica dell’economia e la concezione della politica come gestione del bene comune. E’ avvenuto cioè un vero cataclisma, preparato dai tre totalitarismi del secolo XX, un cataclisma i cui connotati più recenti sono la scomparsa delle classi (proletariato, borghesia) e il dominio livellatore della televisione, rimasta senza spessore culturale a causa della sua commercializzazione.
Asor Rosa ricorda il suo passato di studente affascinato da professori di altissimo livello come Guido Calogero, promotore già dal 1940 del liberalsocialismo, o come Federico Chabod, e si sofferma sulla sua uscita dal Pci nel 1956 a causa dell’ invasione di Budapest da parte dei carri armati russi e della successiva repressione di quella rivoluzione operaia e comunista ungherese. Seguirono gli anni dell’operaismo di un Asor Rosa schierato a fianco della classe operaia italiana, costretta sulla difensiva (gli operai sindacalizzati e comunisti che il predominio padronale relegava nei «reparti confino») e successivamente partita alla riscossa nel 1968-69 con la solidarietà del movimento studentesco. L’adesione del Nostro nel 1968 al Psiup, partito nato dalla scissione del Psi, fu l’anticamera del suo ritorno nel Pci nel ’72 insieme alla grande maggioranza degli iscritti al Psiup.
Il Pci, sotto la guida di Berlinguer, si impegnò nella politica del compromesso storico con la Dc dell’on. Moro, una scelta dettata dall’assassinio del cileno Allende che fu allora criticata dagli “operaisti”, ma sulla quale oggi Asor Rosa ha mutato opinione: «Osservata a posteriori, con lo sguardo di oggi, la linea indicata da Enrico Berlinguer e Aldo Moro – altro grande protagonista di quella stagione – può essere considerata, nel periodo che va dalla liquidazione dell’unità antifascista fino ai nostri giorni, l’ultima rilevante proposta strategica formulata dal ceto politico italiano. Dopo – per dirla banalmente – s’è navigato a vista».
Sì, perché dopo sono arrivati Craxi e Berlusconi. «Considero Bettino Craxi – scrive Asor Rosa – ‘uno dei tre o quattro uomini più nefasti della storia italiana postunitaria: egli riduce la politica a pura occupazione di potere, radicalmente spogliata di quelle mediazioni culturali che avevano caratterizzato fino a quel momento la nostra storia nazionale. Un’involuzione che coinvolge altre formazioni politiche, attraverserà tutto il decennio, fino a trovare una sublimazione in quel Silvio Berlusconi non a caso nato come imprenditore alla corte del segretario socialista. Craxi, naturalmente, è solo la punta di un iceberg’. E in tal modo è venuta meno l’intelligenza critica, sopraffatta dai modelli seriali e ripetitivi dell’immaginario massificato della Tv, così come la cultura storica è stata sostituita dall’«anti-antifascismo» mistificatorio del cosiddetto revisionismo. «L’homo novus berlusconiano ha tagliato le nostre radici storiche. Né Risorgimento né Resistenza – ossia le pagine fondative della storia italiana – fanno parte del suo patrimonio genetico – identitario. Se a Berlusconi nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole, perché dovrebbe appassionarsi alla Resistenza e allo stesso Risorgimento, da cui ha avuto inizio quel faticoso processo di costruzione di una società democratica italiana nel rispetto delle regole? L’uscita da questa tradizione storica – per la prima volta segnata dal berlusconismo – pone la premessa per un assetto politico-istituzionale di tipo monocratico, del tutto estraneo al patrimonio nazionale unitario che fin dal 1948 – sia pure in forme tra loro del tutto discordi e contraddittorie – arriva fino ai nostri giorni».
Nel Pci, dopo la morte di Berlinguer e l’interregno di Natta, Asor Rosa allacciò con il nuovo segretario Occhetto un rapporto di proficua collaborazione intesa a favorire la migliore relazione possibile tra partito e intellettuali. Ma a guastargli questa interessante operazione sopraggiunse non tanto la decisione di Occhetto di mettere fine nel novembre 1989 all’esperienza del Pci, bensì il carattere autoritario di quella decisione: «Mi sentii tradito. Andai da Occhetto, glielo dissi veementemente, lui reagì con la medesima asprezza, e la cosa finì lì. La sua operazione, inattesa e fulminea, improvvisa ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme. […] Occhetto scassò tutto, come un bambino viziato. Scelse consapevolmente di smontare radicalmente il suo partito. Non mi impressionava veder crollare l’impalcatura politico-organizzativa del comunismo italiano: non sono mai stato sospettabile di simpatia per la vulgata marxista comunista, neanche nella sua versione più addolcita. Mi impressionava la disinvoltura suicida con cui tutto questo veniva fatto. La dispersione intellettuale che ne scaturì non è stata più né affrontata né tanto meno rimediata».
Dopo il 1989, da un lato gli intellettuali che erano stati i più “organici” si affrettarono a cavalcare acriticamente la svolta occhettiana, dall’altro lato i difensori dell’ ortodossia comunista si limitarono a fare le «sentinelle dell’ortodossia, chiamate nel teatrino mediatico a recitare la parte dei comunisti puri. Un disastro! In sostanza, è stata buttata via l’intera storia del Pci, senza alcuna distinzione. […] Il silenzio e la viltà di molti intellettuali postcomunisti allora hanno indebolito la sinistra italiana in modo mortale».
Oggi si continua a navigare a vista, ma il libro si chiude con un atto di speranza e fiducia in tanti giovani seri e preparati di oggi, chiamati a ripartire da capo lottando per i diritti civili minacciati e per l’ambientalismo.
di Alessandro Roveri
Libero docente dell’Università di Roma