L’INTERVENTO
di Fausto Bersani Greggio*
‘Contrario per motivi che vanno da quelli economico – gestionali fino a quelli legati alla tutela ambientale e sanitaria. Plutonio: è sufficiente inalarne un milionesimo di grammo per sviluppare un cancro al polmone’
Mai dimenticare: investire nella ricerca la quale potrebbe dare notevoli contributi anche in due filoni energetici emergenti quali la fotosintesi artificiale e l’idrogeno dai quali si potrebbe ricavare energia in quantità praticamente illimitata e, con opportuni accorgimenti, estremamente rispettosa dell’ambiente e dell’uomo
– Negli ultimi tempi si sente sempre più insistentemente parlare di ritorno al nucleare, ritorno che sembra ormai cosa fatta a dispetto anche del risultato del referendum del dopo Chernobyl con il quale l’Italia all’epoca si tirò fuori dalla corsa verso questo tipo di risorsa energetica.
Personalmente, pur essendo un fisico, o forse dovrei dire, proprio perché sono un fisico, mi trovo ad essere contrario al nucleare che ci viene proposto, anche se non al nucleare in generale.
I motivi vanno da quelli economico – gestionali fino a quelli legati alla tutela ambientale e sanitaria ed in questo articolo ve li illustrerò muovendomi su un piano squisatamente tecnico, basandomi solo su dati scientifici, lasciando ad altri il compito di percorrere i sentieri delle mistificazioni politicamente corrette.
Domanda ed offerta
L’evoluzione nel tempo della domanda di Uranio, materia prima degli attuali reattori nucleari, ha subìto una crescita pressoché costante dalla metà degli anni ’50 ad oggi, mentre la produzione ha raggiunto il suo picco massimo nel 1980 per poi subire una sensibile flessione che ci ha riportato ai livelli degli anni ’60 -’70, periodo nel quale la produzione aveva scopi quasi esclusivamente militari.
Oggi la produzione di Uranio è nettamente al di sotto della domanda. Ne è conferma il fatto che i costi, che avevano raggiunto i minimi storici negli anni ’90, hanno ricominciato a salire ed i dati del World Energy Council del 2007 ci attestano una crescita del 700% aggiornata al 2006 e raggiunta in soli quattro anni.
Non solo, ma tale produzione pone l’Europa in uno stato di sudditanza economica non dissimile a quella già in atto nei confronti dei paesi esportatori di Petrolio. Infatti circa il 23% dell’Uranio proviene dall’Australia, il 30% dal Canada ed il 10% dal Kazakistan. Percentuali minori riguardano gli USA e alcuni stati africani.
Tra i primi 15 detentori di riserve di Uranio non vi è un solo paese dell’Unione Europea. Inoltre, dato da non trascurare, da 30 anni non si progettano nuovi impianti né negli USA né in Europa; solo 30 nuovi impianti sono in costruzione nel mondo e non riusciranno certo a rimpiazzare le centrali che hanno già raggiunto l’età della pensione. Incidentalmente la loro permanenza in attività, per una legge di natura1, non può far altro che aumentare il rischio di qualche mal funzionamento.
Infine non va sottovalutato il fatto che i tempi costruzione di una centrale si aggirano intorno ai 10 anni con un tempo di ritorno (payback time), ossia un tempo necessario affinché l’impianto restituisca l’energia spesa per fabbricarlo, prossimo ai 7 anni con enormi oneri finanziari in termini di interessi passivi, tutto ciò a fronte della previsione in base alla quale l’Uranio è destinato a scarseggiare entro 35 – 40 anni.
Quindi pensare al nucleare come ad una risorsa sicura, economicamente vantaggiosa ed in grado di condurre all’autosufficienza energetica europea, se non adirittura italiana, mi pare costituisca un’ipotesi decisamente utopistica.
La gestione delle scorie
Gli impianti nucleari, durante il loro funzionamento, generano scorie, anch’esse altamente radioattive la cui gestione negli anni si è rivelata alquanto complessa, oltre che dispendiosa.
Innanzi tutto, le scorie a più elevata temperatura devono essere conservate per almeno 10 anni in appositi impianti di raffreddamento. Successivamente vanno individuati depositi con caratteristiche particolari per uno stoccaggio definitivo. Durante queste fasi delicate sono stati documentati decine di casi di perdite nell’ambiente di materiale pericolosissimo per la salute come ad esempio il Plutonio, praticamente assente in natura, fatta eccezione per la sua sintesi nei reattori nucleari.
E’ sufficiente inalarne un milionesimo di grammo per sviluppare un cancro al polmone. La sua radioattività è tale per cui è necessario attendere ben 24.000 anni per dimezzare una data quantità iniziale. Una centrale avente una potenza da1.000 MW (MegaWatt)2 produce qualcosa come 30 ton (tonnellate) all’anno di Plutonio. L’Europa genera scorie complessivamente per circa 2.700 ton/anno, delle quali 27 sono di Plutonio. Dall’nizio dell’era atomica, cioè dai primi anni ’50, sono state prodotte a livello mondiale circa 1.500 ton di Plutonio, ossia più di 2 milioni di dosi carcinogeniche per abitante del pianeta Terra.3
Il caso degli USA è emblematico circa la situazione in cui versano le nazioni nuclearizzate: nel 1978 il governo americano individuò un bunker naturale posto nel deserto del Nevada, Yucca Mountain, sito a circa 150 km da Las Vegas, il quale dovrebbe diventare il deposito definitivo delle scorie a livello nazionale. L’uso del condizionale è d’obbligo in quanto la data presunta per l’inizio della riposizione di questa pesante eredità energetica dovrebbe essere il 2017.
Le garanzie di sicurezza sono di 10.000 anni, comunque un tempo inferiore al tempo di dimezzamento del Plutonio, i costi si aggireranno intorno ai 75 miliardi di dollari, ma soprattutto la capacità non andrà oltre le 70.000 ton, parametro del tutto insufficiente in quanto gli USA, nel 2017, avranno raggiunto un totale di 85.000 ton di scorie, quindi il deposito di Yucca Mountain è già virtualmente pieno ancor prima della sua inaugurazione.
Lo stesso trasporto in sicurezza delle scorie, dalle centrali fino ai depositi, attraversando aree antropizzate risulta un problema di non facile soluzione.
Purtroppo per decenni le profondità marine sono diventate delle vere e prorpie discariche nucleari e, anche se tale pratica è bandita a livello internazionale, esistono sospetti circa la sua reiterazione, magari grazie anche alla complicità di organizzazioni criminali senza scrupoli le quali si possono arricchire a fronte di gravissimi reati ambientali.
Il nucleare non serve per contrastare il caro-petrolio
Il fabbisogno energetico europeo è costituito per ¾ (75%) dal consumo di combustibili e per ¼ (25%) dai cosumi elettrici. Il nucleare, è bene sottolinearlo, serve solo per produrre elettricità. Basti pensare che la Francia, la quale produce il 78% di elettricità con il nucleare, consuma più petrolio dell’Italia pur avendo circa la stessa popolazione (nel 2008: in Francia si sono consumati circa 1,92 milioni barili/giorno mentre in Italia 1,75).
Non è neppure vero che siamo costretti a comprare a caro prezzo l’elettricità dal nucleare francese. Semmai è la Francia che è costretta a vendere durante la notte, ai paesi vicini, elettricità a basso prezzo per liberarsi dell’ecceso di energia delle proprie centrali che non possono accendersi e spegnersi inseguendo l’andamento discontinuo della domanda elettrica giornaliera.
Una centrale nucleare dell’attuale generazione può solo funzionare a ciclo continuo e la svendita dell’esubero di energia prodotta costituisce un vero e proprio affare per le società energetiche acquirenti, consentendo a queste ultime di risparmiare il proprio potenziale elettrico che spesso, in modo mistificatorio, viene dichiarato inadeguato a fronteggiare le richieste.
Non c’è nulla di male a comperare energia a basso prezzo da altre nazioni, mi limito solamente ad osservare che l’affare dovrebbe essere vantaggioso non solo per le casse delle società elettriche, ma anche per quelle dell’utente che ne beneficia.
L’estrazione dell’Uranio è un processo inquinante ed energeticamente dispendioso
Sovente si sente dire che il nucleare costituisce una risorsa pulita e rispettosa dell’ambiente. Credo che dovremmo rivedere tali credenze. Senza entrare in dettagli tecnici troppo complessi, mi limito a ricordare che un reattore, in genere, utilizza due tipi di Uranio. L’Uranio 238 va arricchito in una percentuale del 3-4% con l’Uranio 235, questo ultimo assai meno diffuso in natura (0,7% dell’Uranio totale). Nella crosta terrestre, in media, si possono trovare 3 grammi di Uranio 238 per ogni tonnellata di roccia. Se partiamo da granito ricco di Uranio 238 si può arrivare fino ad 1 kg.
Una centrale utilizza 160 tonnellate di Uranio 238 all’anno, pertanto occorre processare un minimo di 160.000 tonnellate di materiale. Le 159.840 tonnellate di scarto, costituite da metalli pesanti ed altri elementi radioattivi altamente inquinanti, devono essere quindi opportunamente trattate. Successivamente dovrà avvenire il processo, molto dispendioso, di arricchimento con l’Uranio 235.
Circa poi lo smantellamento di una centrale nucleare ricordiamoci che serve una energia circa 10 volte superiore a quella che serve per demolire una centrale a gas di pari potenza.
Infine vanno previsti anche grandi consumi di acqua per il raffreddamento del reattore. Un dato sconcertante riguarda la Francia in cui il 22% del consumo nazionale di acqua è destinato a tale operazione. In altri termini l’intera filiera nucleare rappresenta un sequenza di passaggi, alcuni dei quali per semplicità sono stati omessi, estremamente inquinanti, per altro realizzata a partire da combustibili fossili, ed enegeticamente dispendiosa.
Non esiste il nucleare sicuro
In base al risultato di un calcolo probabilistico, ogni cento anni è possibile il verificarsi di un incidente nucleare, dato incrementabile con l’aumento del numero delle centrali e/o della loro età. Alcune nazioni stanno rimandando lo smantellamento delle centrali più vecchie per evitare i costi onerosi di tale operazione. D’altra parte, un sistema complesso come una centrale nucleare ha un solo modo per poter funzionare bene, ed un grandissimo numero di alternative di funzionare male, che si possono moltiplicare nel tempo a causa di una inevitabile perdita di integrità dei suoi componenti.
In realtà però non mi voglio soffermare sulle vere e proprie catastrofi come il caso di Three Mile Island (1979) o di Chernobyl (1986), bensì su casi più subdoli, di centrali all’apparenza nella norma, ma che per piccole contaminazioni ambientali hanno contribuito ad incrementare il rischio cronico di certe patologie.
Ad esempio una recente ricerca tedesca realizzata nel 2008 ha evidenziato risultati allarmanti. Esaminando i 16 impinati nucleari presenti sul territorio tedesco è stata dimostrata una correlazione tra la zona di residenza e l’incidenza di leucemia in bambini con età inferiore a 5 anni. I bambini che vivono entro 5 km dai reattori sono soggetti ad un incremento del 76% del rischio di contrarre una leucemia rispetto ai coetanei che vivono a più di 50 km. Questo incremento di probabilità si riduce al 26% tra 5 e 10 km, al 10% tra 10 e 30 km e allo 0,5% tra 30 e 50 km.
In un commento sulla autorevole rivista Enviromental Health è stata avanzata l’ipotesi che radionuclidi quali il Trizio, il Carbonio14 ed altri, liberati con il vapore acqueo dagli impianti, vengano assorbiti dal suolo entrando poi a far parte della catena alimentare.
Non esiste un nucleare sicuro o bassa produzione di scorie. Al più esiste un nucleare innovativo, come come ha dimostrato Carlo Rubbia negli anni ’90. Questo consiste nella possibilità di usare il Torio, un elemento largamente disponibile in natura, adatto a far funzionare un reattore non critico, ossia un reattore che non potrà mai arrivare ad una reazione incontrollata e che può essere arrestato in qualsiasi momento.
Inoltre produce scorie e breve tempo di dimezzamento e non genera Plutonio, elemento indispensabile per potenziare gli arsenali militari. In tal modo si taglierebbe definitivamente anche il cordone ombelicale tra nucleare militare e nucleare civile. Al momento tuttavia tale tecnologia è stata sperimentata, con successo, solo con protitipi su piccola scala e non credo che esista la volontà politica ed economica di investire in tal senso, almeno fino a quando i rendimenti degli impianti al Torio non saranno superiori agli attuali.
Ancora più arretrato è il discorso sulla fusione nucleare dalla quale si potrebbe generare molta più energia rispetto ai reattori attuali con una gestione ambientale assai più semplice. Tuttavia la ricerca è in fase preliminare: il primo impianto dimostrativo è previsto non prima del 2030 e la sua commercializzazione intorno al 2050.
Quindi…
In attesa di valutare “nucleari” più puliti ed energeticamente vantaggiosi, i modelli attuali non rappresentano certo una prospettiva rassicurante, né sul piano ambientale, né su quello economico. I costi altissimi delle centrali in genere sono stati fino ad ora sostenuti da governi interessati a mantenere in vita i propri arsenali atomici.
Nessuna impresa privata è disposta ad investire in un settore così ad alto rischio senza precise garanzie e coperture da parte delle finanze pubbliche. Il nucleare di fatto non sopravvive in regime di libero mercato.
Chiudo questo mio intervento con una nota positiva e di speranza: la possibilità di uno sviluppo sostenibile esiste. Dati alla mano è necessario e praticabile, innanzi tutto, ridurre gli sprechi, operazione che già di per sè costituisce una prima forma di notevole guadagno. Viviamo nella civiltà dell’usa-e-getta, una logica che porta alla distruzione delle risorse e allo sfruttamento delle persone.
Negli USA solo il 44% dell’energia primaria si trasforma in energia utile, il 56% va perduto, se venisse riciclato avremmo a disposizione energia pari a quella di 65 centrali da 1 un miliardo di Watt l’una. Questo stile di vita energivoro ha ovviamente condizionato anche l’Europa ed impedisce di utilizzare alcuni sistemi energetici a maggiore efficienza già disponibili, ma di cui poco se ne parla, e sia ben chiaro che non mi riferisco alle lampade a basso consumo per le quali esiste un problema di inquinamento elettromagnetico e di cui altrettanto poco si diffondono notizie.
Sarebbe opportuno incentivare maggiormente le fonti rinnovabili “pulite” scegliendo un adeguato mix energetico, possibilmente basato sul Sole (solare termico, fotovoltaico e solare termodinamico), vista soprattutto la nostra straordinaria collocazione geografica.
Infine, altro elemento fondamentale di cui non ci si dovrebbe mai dimenticare, consiste nell’investire nella ricerca la quale potrebbe dare notevoli contributi anche in due filoni energetici emergenti quali la fotosintesi artificiale e l’idrogeno dai quali si potrebbe ricavare energia in quantità praticamente illimitata e, con opportuni accorgimenti, estremamente rispettosa dell’ambiente e dell’uomo.
*Professore di Fisica e consulente della Federconsumatori della provincia di Rimini
1) Il secondo principio della Termodinamica
2) 1 MW = un milione di Watt
3) Nicola Armaroli – “Enegia per l’astronave Terra”, 2008, Ed. Zanichelli