VOLONTARIATO
di Ivano Tenti
– Sono appena tornato da due settimane di lavoro “manuale” in Terrasanta, a Gerusalemme. Dico manuale perché il lavoro che ho sempre fatto era di tipo diverso, ho sempre fatto il bancario.
Ero già stato in Terrasanta nel settembre 2008 insieme ad una cinquantina di amici e quella terra così contraddittoria, ma è anche la stessa terra calpestata da un uomo che si chiama Cristo e che non può lasciare indifferente chi ci va anche solo per una vacanza tra le tante.
A Rimini esiste dal 2005 una associazione che si chiama “Associazione Romano Gelmini per i popoli della Terrasanta” che conta circa 70 soci ed il cui presidente è Pier Luigi Pari. E’ nata a Rimini dopo l’incontro con Ettore, un ingegnere padovano, che da diversi anni vive e lavora in Terrasanta.
In un primo tempo ha collaborato coi Fatebenefratelli presso l’Holy Family Hospital di Nazareth e da circa 3 anni lavora per la Custodia francescana di Terrasanta. Questa associazione ha lo scopo di aiutare i cristiani di quei luoghi ed in particolare i luoghi sacri. Romano Gelmini era un amico di Ettore, deceduto giovane, che aveva iniziato già quest’opera di aiuto.
In Terrasanta i cristiani sono solo il 2% della popolazione e divisi in molte confessioni. A me la voglia di quella terra era rimasta dal primo viaggio per cui, come a volte accade, un amico, una sera mangiando una pizza, mi dice: “A dicembre torniamo giù per dei lavori, perché non vieni anche tu?”.
Non sempre nella vita si programmano le cose, ma, a volte, senti che devi ugualmente rispondere di sì; e così, in 14, 10 riminesi, 2 milanesi e 2 bergamaschi, siamo partiti con destinazione Gerusalemme. Il nostro compito era principalmente uno: rifare la cucina dei frati francescani che stanno nel Santo Sepolcro e fare loro da mangiare per tutto questo periodo.
Non credo che tante persone possano poter dire di avere vissuto praticamente per due settimane nel Santo Sepolcro (nell’alloggiamento dei francescani) e di aver cucinato per i dieci frati che vi abitano.
A cosa servisse veramente il nostro lavoro ce lo ha ricordato la prima mattina padre Fergus priore del Santo Sepolcro: “Con il vostro lavoro voi fate la stessa cosa che facciamo noi: costruire la Chiesa in questa Terra e quindi costruire la Chiesa nel mondo”.
Con queste parole ci ha tolto il peso del fare, per non rendere il fare, pur per nobili scopi, il motivo del nostro essere lì, ma per rendere evidente che cosa muove il cuore dell’uomo. Non era la nostra bravura a tema (infatti alcuni di noi – tra cui io – non siamo artigiani), ma il senso primo del nostro essere lì era collaborare alla costruzione della Chiesa, cioè alla possibilità che altri possano incontrare lo stesso Cristo che abbiamo incontrato noi attraverso la faccia di qualcuno che ti colpisce e che ti fa porre la domanda: ma perché lui è così?
Come ebbe a dire l’allora cardinale Ratzinger. “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo? Perché la risposta è affermativa? Perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo”.
Al nostro desiderio noi non riusciamo a dare risposta, solo un Altro ce lo rende possibile. Abbiamo lavorato molto: spaccato tutte le mattonelle della cucina, tolti i lavandini e gli elettrodomestici, fatte le tracce nuove nei muri, fatto l’impianto elettrico, l’impianto idraulico, sistemato i muri e messe su nuove mattonelle, allacciato i nuovi elettrodomestici, attaccato i pensili, scaricato tante macerie lungo i tanti gradini che ci sono, pulito la sacrestia superiore piena di polvere e di tesori insieme, verniciato dalle suore Clarisse che si trovano sulla strada che porta a Betlemme.
La fatica è stata grande, ma la paga tanta. Non soldi evidentemente (ciascuno di noi si è pagato il viaggio ed ha contribuito al vitto), ma la grazia di respirare l’aria del Mistero che è presente in Quel luogo anche se si trova a lavorare nell’anfratto più isolato.
La S.Messa la mattina alle 6.30 al Santo Sepolcro con i frati, sentire la loro amicizia e le loro testimonianze di vita lì, l’incontro con le Clarisse che ci dicono che la nostra presenza lì, gratuita, è per loro fonte di domanda: ma perché una persona viene a lavorare gratis a Gerusalemme, anzi spendendo dei soldi (ma la parola gratitudine ha la stessa radice di gratis, e non è un caso).
E’ stata anche la possibilità di incontrare diverse realtà cristiane di Terra Santa: Samar una donna cristiana palestinese che ha una casa per bambine e ragazze maltrattate dalla famiglia (di solito il padre), Filippo un architetto che collabora a dei progetti con Ettore, Daniela un’archeologa che lavora al museo di Gerusalemme, Alberto e Tommaso che lavorano per una ONG (AVSI), don Vincent vice-parroco in territorio palestinese, etc.
Incontri che ti fanno riflettere sulla solidità della tua fede; lì non puoi barare perché la vita dei cristiani non è facile e chiede una certezza che troppo spesso noi qua abbiamo meno.
Vorrei terminare con una frase che disse Ettore un anno fa in un incontro con lui e che, secondo me, dice quello che quella terra ha come possibilità di incontro per tutti: “E allora uno dice: il vostro stare qua, a cosa serve?
A me ha impressionato, e io ho sempre presente questa cosa: che la Madonna era in una situazione assolutamente analoga, cioè era in un buco di posto e a un certo punto ha detto un sì fragilissimo di cui nessuno si è accorto nel mondo e attraverso quel sì è entrata un’altra cosa, è entrato un altro fattore nel mondo, che da quel momento lì ha iniziato a esserci e attraverso quel momento lì ha iniziato a salvare il mondo.
Il mondo non se n’è accorto, ha continuato ad andare avanti da un’altra parte, però è entrato un fattore che ha cambiato radicalmente tutto. Io sono grato quando qualche volta mi ricordo di questa roba qua e capisco che tutto il valore del mio essere qua e del mio vivere è in questo sì qui, è in questo fragilissimo sì”.