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Natale, quelle omelie Fuoritempio

Redazione di Redazione
22 Dicembre 2010
in L'altra pagina
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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LA RIFLESSIONE

di Valerio Gigante – Luca Kocci

Le Chiese, così come tutte le “strutture” religiose, sono portate, per l’essenza stessa per le quali sono state create, nonché per la loro vocazione postcostantiniana, alla conservazione dei rapporti economico-sociali di cui spesso si fanno garanti presso il potere politico

Nei Vangeli Gesù rappresenta spesso, per gli scribi ed i farisei, per i rappresentanti dell’istituzione, proprio la possibilità di cambiamento Al punto che Gesù si rivela sempre alle persone, mai all’istituzione religiosa

– Nel contesto sociale e politico le Chiese, così come tutte le “strutture” religiose, sono portate, per l’essenza stessa per le quali sono state create, nonché per la loro vocazione postcostantiniana, alla conservazione dei rapporti economico-sociali di cui spesso si fanno garanti presso il potere politico, a cristallizzare la realtà esistente, a contrastare qualsiasi rottura dell’ordine costituito. In una dimensione più profonda, il sacro può poi divenire anche il rifugio per chi sente su di sé l’insicurezza che sempre caratterizza l’esistenza cui si aggiunge – specie nei periodi di crisi – quell’insicurezza-precarietà che la società e l’ideologia dominante ci butta addosso. La religione-istituzione, in questi casi, può costituire la proiezione di una angoscia irrisolta, il risultato di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere.
È spesso infatti più comodo assolutizzare ciò che è relativo, tentare di fissare strutture, riti, leggi, dogmi, che si richiamino magari a qualche “legge naturale”, piuttosto che affrontare il rischio della storia, del divenire, del relativo. Ma dando risposte tranquillizzanti al nostro senso di inadeguatezza trasformiamo la religione in una sorta di nevrosi sociale, per la quale tutto diventa “assoluto” (nel senso etimologico di ab-solutumcioè sciolto da ogni legame con la realtà, la prassi) eterno ed immutabile, al prezzo però di impedire a noi stessi la necessaria crescita nella responsabilità.
Per dare una risposta alla nostra angoscia di morte, rischiamo così di disumanizzare la vita. O di farne un feticcio, come quando la gerarchia cattolica pretende di difendere una “vita” non meglio definita (ma appunto, non definibile in quanto valore non negoziabile e non disponibile) dal concepimento alla sua “fine naturale”.
Ma quella stessa gerarchia, mentre assume un rigore quasi assoluto nei confronti di questi due estremi, mantiene poi un atteggiamento piuttosto tollerante rispetto a tutto ciò che minaccia quello che si trova in mezzo a questi due “poli”, cioè la vita stessa.
Eppure, il cristianesimo è la religione del Dio che si fa uomo, dell’assoluto che si fa relativo, della “natura” che diviene storia. Di una incarnazione che avviene per il tramite di una donna del popolo, in una famiglia che oggi chiameremmo “di fatto”, ma che in ogni caso sfuggiva alle leggi ed ai costumi del tempo.
L’angelo Gabriele viene mandato ad annunciare la nascita di Dio in una regione, la Galilea, che era disprezzata. In una cittadina, Nazaret, periferica e malfamata («Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?», Gv 1,46). Addirittura, porta questo annuncio ad una donna, e ad una donna del popolo. E Gesù nasce da un uomo ed una donna in fuga, profughi, migranti del tempo. Un Dio che accetta, quindi, la sfida del divenire, della precarietà, dell’essere con.
Per questo, alla religione che tenta di imprigionare la fede dentro i rigidi recinti del sacro, si contrappone, da sempre, una fede che assume la sfida dell’autonomia da ogni modello, autorità o autoritarismo. Del resto, è Gesù stesso che nel Vangelo invita chi intende seguirlo a rinnegare il proprio padre e la propria madre. E sempre Gesù a preconizzare la distruzione del Tempio e la sua ricostruzione in tre giorni. Ma il Tempio che viene riedificato è quello stesso della persona di Gesù. Un tempio di carne e di sangue, fondato sulla parola, per sostituire quello fondato dalla legge.
Ed è esattamente questo il senso delle “Omelie fuoritempio”, giunte al loro terzo ed ultimo volume: non perché chi predica nel tempio o lo frequenta sia da biasimare. Tutt’altro: non è raro che anche nel tempio si levino voci profetiche. La questione è che nel tempio tutto si può proporre, meno che il cambiamento. Le novità, nell’istituzione religiosa, vengono viste con paura, con preoccupazione, come un attentato alla sicurezza, alla “verità” che è sempre una verità già data, immutabile, e mai verità in divenire. Nei Vangeli Gesù rappresenta spesso, per gli scribi ed i farisei, per i rappresentanti dell’istituzione, proprio questa possibilità di cambiamento Al punto che Gesù si rivela sempre alle persone, mai all’istituzione religiosa. E che i luoghi più pericolosi per Gesù sono sinagoghe e templi; i più sicuri, quelli frequentati da pubblicani e prostitute. “Fuori” dal tempio, quindi. Ma dentro la storia. Per liberare la parola dalla prigionia delle cattedre, dei pulpiti, da ogni esclusività (perché spesso le parole “imprigionate” dal tempio sono parole che escludono, anziché includere). E per ribadire che essere obbedienti alla Parola significa essere disobbedienti al dogma.
*Introduzione al volume Fuoritempio. Omelie laiche. Anno A (Di Girolamo, Trapani, 2010)
Fuoritempio. Omelie laiche. Anno A
Tra gli autori delle omelie, Aldo Antonelli, Giuseppe Barbaglio Marcelo Barros, Luigi Bettazzi, Ortensio Da Spinetoli, Vitaliano Della Sala, Giovanni Franzoni, Jacques Gaillot, Elizabeth Green, Raniero La Valle, Alberto Maggi, Ettore Masina, Martino Morganti, Raffaele Nogaro, Alessandro Santoro, Felice Scalia.
www.adista.it.

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