SGUARDI D’ARTISTA
– Faetano, valle del Marano a pochi metri dal laghetto artificiale, oasi per pescatori senza pretese e attese, in mezzo ad una vegetazione folta che si fa quasi inaspettatamente lussureggiante per salici, robinie e pioppi che si addensano sulla trama di un fitto sottobosco. Qui ci accoglie Patrizia Taddei in una casa-studio sepolta nel verde dove opera da molti anni, artista inconsueta, riparata, capace tuttavia di dare voce ad un universo figurativo fuori dalle convenzioni, di struggente leggerezza e comunicabilità.
Non nasconde il profondo amore per l’insegnamento che ha praticato a lungo negli istituti superiori sammarinesi attraverso la prassi delle discipline artistiche.
“La vicinanza dei ragazzi – racconta – era un elemento vitale e formulato su un mutuo scambio, arricchente da entrambi i versanti, significava confronto e stare al passo con le tendenze e gli umori delle giovani generazioni, capacità di avvicinarsi al nomadismo delle controculture imperanti, anche musicali. Un modo per continuare a comunicare con il mondo e le cose”.
Oggi questa versatilità si apre attraverso il suo linguaggio che si fa pittorico ma che si serve anche di altre espressioni materiche, ceramica e mosaico. La sua formazione rivela una partecipazione ad un cursus tradizionale: diplomata all’accademia di Belle Arti di Urbino dopo il liceo artistico ad Ancona svolto sotto la guida del maestro Valeriano Trubbiani (era stata compagna di classe di Gino De Dominicis), si avvicina dapprima alla scultura – in questo incitata da un altro docente Bruno Raspanti a sua volta debitore profondo allo scultore bolognese Quinto Ghermandi; poi si avvicina alla pittura.
Ma gli anni ’70 – si sa – negano con veemenza ogni espressione troppo convenzionale, impera l’arte concettuale e minimalista e quando ancora si fa ricorso a tele e pennelli è per debito con le ultime sfilacciature della pop art migrata in Italia all’inizio degli anni Sessanta.
Il clima è di contestazione e i docenti che si avvicendano a Urbino sono Pier Paolo Calzolari e Concetto Pozzati. La pratica si addensa “su sperimentazioni che contaminano i linguaggi, fotografia, ambiente, azioni. L’egemonia dell’Arte Povera si fa sentire: ciò che conta non è l’opera finita ma il progetto e la sua intenzione”.
Ma Patrizia Taddei a partire dagli anni ’80 inizia ad indagare temi e soggetti che guardano la grande ‘scienza’ alchemica; lo fa attraverso mezzi pittorici riesumando partiture e prospettive di derivazione storica, rinascimentale. Il fatto che si sia avvicinata all’alchimia, antico sistema filosofico che combina elementi di fisica, chimica, astrologia, arte, semiotica, medicina, affina un processo di crescita e di speculazione. Si avvicina ad iconografie come l’albero della vita e la fonte dell’acqua avviando un percorso analitico sul tema dell’uomo e le sue simbologie, denso di significati, leggendari, biblici, esoterici. Che ripropone anche quando adotta supporti leggeri e fragili come la carta di riso giapponese sulla quale stende un colore liquido e diluito. Figure immerse in una sospensione arcaica, ribadita dalla costante di un universo femminile accostato a quello maschile, ma smarrito in una dimensione panica e remota, dove affiora il principio del bene e del male. Non era l’albero della vita un albero che Dio pose nel Giardino dell’Eden assieme all’albero della conoscenza del bene e del male? (Genesi 2.9). Di questo ed altro ancora ci racconta attraverso i suoi ultimi lavori: dualità maschile e femminile, congiunzione e maternità, riletta nelle forme e nella citazione classica-rinascimentale.
Illustra il progetto della sua nuova mostra che sarà in autunno dal titolo enigmatico (Io sono creativa dalle 16 alle 16,30). I temi ritornano con nuovo vigore. Con la forza del colore steso su tavole dall’imprimitura rigorosa (oli e acrilici), con la forma di corpi e volti di sfuggente sfatta allusività e seduzione.
di Annamaria Bernucci
Direttrice della Galleria comunale S. Croce di Cattolica