CULTURA
di Silvio Di Giovanni
E’ custodito in uno dei sarcofagi esterni del Tempio Malatestiano. Pletone, uno degli uomini più prodigiosi del XV secolo, fu propugnatore, purtroppo inascoltato, di una riforma e di un ripensamento nella gestione del potere con le implicazioni politiche e sociali cui esercitavano i vari potentati religiosi del suo tempo: Giudaici, Cristiani ed Islamici
– Ho letto con vivo interesse il bellissimo volume dello scrittore e storico dell’arte Pier Giorgio Pasini dal titolo “Il tesoro di Sigismondo” e per sottotitolo “e le medaglie di Matteo de’ Pasti”, che la Banca Popolare Valconca, nella sua encomiabile iniziativa, ha recentemente dato in omaggio come strenna natalizia 2009.
Da amante dell’Arte e della Storia non posso che trovarmi d’accordo con la esposizione circa i veri tesori di Sigismondo: sia nella bellezza del Castello di Rimini che del Tempio Malatestiano e sia nelle Medaglie coniate da Matteo De’ Pasti e da altri artisti incisori del tempo, così come bene ed egregiamente illustrato nel volume con una nutrita esposizione di stampa di quei ritrovamenti dalla pregevole forma ed incisione.
Se mi è permesso, parlando di “tesoro”, vorrei aggiungere una mia idea sull’altro grande tesoro lasciatoci da Sigismondo.
Sappiamo che fu grande mecenate di artisti e letterati e letterato lui stesso, oltre che grande conoscitore dell’antichità e, così ricordiamo la sua Isotta, colta e paziente poetessa ben degna delle elegie del “Liber Isottaeus”.
Così pure sappiamo della sua decadenza, quale signore dei nostri luoghi dal 1462, anche per l’opera calunniatrice del Piccolomini, fortemente interessato a ridurgli le sue terre per la ben nota bramosia di potere dell’allora Chiesa di Roma, non meno che per l’opera militare delle armate, patrocinate dalla stessa Chiesa con il Legato Pontificio presso l’esercito, il Cardinal di Teano ed il conte Federico da Montefeltro cui, il tradimento dei montefioresi che aprirono le porte al nemico, gli valse la conquista del Castello con la cattura del giovane ventenne Giovanni, che era a capo della guarnigione dei difensori, quale figlio del Gismondo; dopo che erano già caduti Mondavio, Fano, Mondaino e le altre terre del vicariato (vedasi, Filippo Ugolini in: “Storia dei Conti e Duchi di Urbino”, Firenze 1859).
Sappiamo dell’ultima impresa di Sigismondo in Morea contro i Turchi nel 1464-66, con la quale, al servizio della Repubblica di Venezia, cercò inutilmente di poter trarre aiuti, speranza e gloria.
Ma, ciò che a me preme evidenziare, è che a lui non sia sfuggita l’importanza della personalità di quel grande filosofo bizantino, morto circa nel 1450 nella terra di Mistrà (l’antica Sparta), umanista e riformatore (che aveva trasformato e direi ampliato, il proprio cognome di Gemisto in quello di Pletone, che sono entrambi di analogo significato, “pieno”, nella lingua greca).
Pletone venne in Italia nel 1438, all’età di 83 anni, al seguito e quale consigliere dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, alla cui corte partecipò al Concilio di Ferrara, poi trasferito l’anno dopo a Firenze ove, ci ricorda Marsilio Ficino, ispirò nella cultura la conoscenza della lingua greca ed il “ritorno” di Platone, spingendo Cosimo de’ Medici a fondare l’“Accademia Platonica Fiorentina”.
Si può pensare che la presenza di Gemisto al Concilio, per il contributo e l’interesse che le sue idee suscitarono in Italia (così come ebbe ad ispirare lo stesso letterato Leonardo Bruni, che era il cancelliere della Repubblica Fiorentina, quindi un importante uomo politico del suo tempo), non sia sfuggita a Sigismondo?
Sappiamo dell’importanza che ebbe l’opera di Giorgio Gemisto Pletone, uno degli uomini più prodigiosi del XV secolo, quale propugnatore, purtroppo inascoltato, di una riforma e di un ripensamento nella gestione del potere con le implicazioni politiche e sociali cui esercitavano i vari potentati religiosi del suo tempo: Giudaici, Cristiani ed Islamici.
E ciò alfine di non continuare nel futuro a provocare le grandi destabilizzazioni, che poi sono puntualmente avvenute, di cui la storia è piena e traboccante ed ovviamente sappiamo anche dei nemici che lo aggredirono, a cominciare dal patriarca Scolario che fece distruggere un suo componimento sulle Leggi dopo averlo accusato di pesanti ed inesistenti reati e di come il Trebisonda si scagliò contro un altro dei suoi libri.
Ecco, noi vediamo Sigismondo che, prima del suo ritorno dalla Morea nel Peloponneso, va a cercare questo grande personaggio e, quando apprende che è già morto, conoscendo la sua statura, compie un gesto, io direi un grande gesto, anche se solo di valore simbolico.
Prende le ossa di Gemisto e le porta a Rimini ove le dà sepoltura nello stesso suo Tempio (che immortalerà la sua gloria e quella dell’Alberti), ove sarà poi sepolto lui stesso e la sua Isotta.
Ma quale è il significato da cogliere in questo suo gesto per i posteri? Cosa si è prefisso e cosa ha capito Sigismondo (che sicuramente era assalito dalla preoccupazione della posterità), dell’importanza e del valore di questo filosofo bizantino?
Ecco, io penso sarebbe utile riscoprire questo personaggio il cui messaggio era un pensiero ed insegnamento che informava all’ideale di un vivere comunitario in una spiritualità basata sui principi della sapienza greca. Ha qualcosa ancora da dirci questo pensiero?
Può essere colto il gesto di inumazione delle spoglie mortali di Gemisto nel Tempio, da parte del condottiero-umanista Sigismondo, come il voler costituire, a futura memoria, un bene dall’indubbio valore culturale, quale uno dei “tesori” lasciatici da Sigismondo?
P.S.: dedico questa mia idea alla memoria dell’amico Attilio Talacchi, scomparso il 21 ottobre scorso, col quale, nei nostri conciliaboli culturali a due, era sovente presente il personaggio di Gemisto Pletone cui “Tilìn” si sentiva particolarmente attratto dal suo messaggio.