L’INTERVISTA
– Dopo una trentina di secondi che lo scriba aveva tentato di raggiungerlo al telefono, si sente richiamare: “Sono Celli…”. Sempre quello scriba, dalla sorpresa, impasta la risposta: non si è abituati a simile educazione, almeno alle nostre latitudini, dove persino un assessorino della più remota provincia italiana diventa un politico irragiungibile. Pier Luigi Celli però è in ottima compagnia, ci sono altri due riminesi di prestigio che richiamano sempre: Stefano Zamagni, preside di Economia e commercio a Bologna e Umberto Paolucci, ex presidente di Microsoft Europa. Un bel modo per rappresentare il territorio.
Laurea in Sociologia a Trento, Pier Luigi Celli è una delle menti italiane più belle. Nato a Verucchio 68 anni fa, è il direttore dell’università Luiss Guido Carli di Roma. Ha ricoperto una caterva di ruoli importanti. Alla rinfusa: direttore generale della Rai dal 1998 al 2001, consigliere di amministrazione di Lottomatica, Hera e Messaggerie Libri. Dall’85 al 1993, è stato il direttore delle risorse umane all’Eni, uno dei gruppi industriali più importanti al mondo. E’ autore di libri, saggi, articoli. Celli è sposato ed ha due figli: Maddalena (suora di clausura) e Mattia.
Il 30 novembre del 2009 scrive una provocatoria lettera pubblica al secondogenito dal titolo “Figlio mio, lascia questo Paese”. Uscita sul quotidiano “la Repubblica” ha una larga eco; la riprende anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Invita, il figlio a fare armi e bagagli ed emigrare: l’Italia è un paese troppo clientelare per premiare i giovani di talento. Un assaggio dell’articolo: “Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio”. Lo scorso 3 dicembre ha presentato il suo nuovo libro “Coraggio, Don Abbondio”. È anche presidente onorario dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, una delle eccellenze dell’Italia. Da ragazzo pensava di fare il prete, e forse proprio per questo le sue risposte sono brevi, essenziali e dense come i Dieci comandamenti, composti da sole 180 parole. Il teorema di Pitagora, altra genialata, ne ha soltanto 28.
In queste intervista parla dei suoi valori di vita, dell’imprenditoria italiana, dello Stato, del ruolo della finanza. Con quale spirito prima ancora di fare impresa, come dare un senso alle cose che si fanno.
Cosa la spinge a richiamare alle telefonate?
“La buona educazione. E, comunque, il rispetto che si deve a qualcuno che, se ti cerca, ha comunque qualcosa da comunicare”.
Attraverso quale percorso è giunto alla riflessione-lettera con la quale invita suo figlio ed i giovani a lasciare il nostro Paese?
“La rabbia e la delusione di vedere eluso uno dei problemi più seri di questo nostro tempo: il disinteresse per il destino lavorativo di chi, laureandosi, è condannato a vagare tra lavori precari, collaborazioni a tempo, incertezze protratte e pressioni a farsi raccomandare”.
Alla sua lettera, qual è stata la reazione che più l’ha gratificata?
“Il fatto che la forte maggioranza di quelli che hanno reagito (mail, posta, sms, telefonate) abbia capito lo spirito della provocazione”.
Il nostro Paese se la può cavare?
“Credo di sì, abbiamo energie, anche se più individuali che collettive. Ma, in genere sappiamo reagire quando i tempi si fanno duri”.
Fa più danno il nepotismo o la corruzione?
“L’uno è insieme figlio e padre dell’altro”.
Qual è il giusto ruolo della finanza?
“Quello di garantire la sicurezza delle transazioni economiche e di favorirle. Non di speculare semplicemente”.
Perché lo Stato italiano non riesce ad essere moderno ed al servizio del cittadino e delle imprese?
“Domanda senza risposta. Ci vorrebbe un trattato. Troppi interessi settoriali mascherati da interessi generali. La politica si è degradata a servizio di chi la pratica, corrompendo la testa del Paese”.
Perché gli italiani lo sopportano senza reagire?
“Perché ognuno pensa di trovare un suo vantaggio personale dalla frantumazione delle regole”.
Il turismo vale il 12,5 per cento del Pil, e l’Italia non ha un ministero vero, l’Enit è assente, quale riflessione?
“Follia pura”.
Degli imprenditori italiani, si dice che sono dei geni che non fanno ricerca, è proprio così?
“Alcuni sono geni, molti sono bravi, altri ancora sono furbi. Qualcuno è un po’ peggio”.
I politici sanno di economia, a suo parere?
“Quanto basta per tranne vantaggio. Quelli che sanno veramente di economia praticano la politica con circospezione. E viceversa”.
Viene spesso a Rimini?
“Quando posso”.
Chi sono i suoi amici riminesi?
“Il Dott. Francioni, il gestori del Bar Vecchi e pochi altri. Di Rimini, ma a Roma, l’Ing. Moretti, quello delle Ferrovie”.
Quali pregi e difetti riconosce all’imprenditoria riminese?
“Non ne so abbastanza per giudicare. Penso comunque che la nostra sia una terra che non si arrende mai”.
Tra gli imprenditori in circolazione, ci sono dei modelli da prendere come esempio?
“E’ difficile fare nomi. Bombassei della Brembo mi sembra una buona indicazione e Cucinelli per la moda-abbigliamento”.
Tre libri da consigliare ai giovani?
“Guerra e Pace, I Fratelli Karamazov, I Miserabili”.
Che cosa voleva fare da ragazzo?
“Il prete. Ma non avevo le idee chiare”