IN RICORDO
di Matteo Marini
“Ricordatevi sempre che io non sono ‘il padrone’, ma uno che, come voi, vuole che questa azienda vada bene”. Poi alle parole faceva seguire i fatti. Vincenzo Verni era davvero un imprenditore illuminato e chi lo ricorda non manca di citare il suo carattere razionale e pragmatico, alla continua ricerca della verità e delle fonti. Uno dei pochi ‘padroni’ che, cosa non facile negli anni ’70, era rispettato e benvoluto dai suoi stessi operai.
Raccontare “l’Ingegnere” non è facile. In realtà non lo è di nessuno ma se chi, come lui, ha lasciato intendere che non avrebbe mai voluto essere ricordato con “un santino”, allora lo sforzo deve essere necessariamente maggiore.
Classe 1923, Vincenzo Verni ci ha lasciati il 14 febbraio. Si era laureato al Politecnico di Milano e, dopo alcuni anni di libera professione, aveva finalmente realizzato quello che era il suo pallino: la riapertura della fornace di San Giovanni in Marignano. La fornace Verni è tuttora l’azienda più vecchia del paese. È un pezzo importante della nostra storia. I primi mattoni dalla fossa del Ventena videro la luce nel 1860. Negli anni ’50 il padre fu costretto a chiudere ma il futuro della lunghissima ciminiera era già limpido nella testa del figlio: “Alóra..?” Domandava Vincenzo fissandolo negli occhi. E alla fine la ebbe vinta. Il fuoco della nuova fornace Verni prese vigore nel 1968. Dava lavoro a 40 operai e ora, più di 40 anni dopo, la Ve.Va. (nel frattempo era nata la collaborazione con l’ingegner Vannoni a S. Ermete) esporta la maggior parte della sua produzione all’estero, soprattutto in Medio oriente. Vincenzo ci aveva visto giusto e la sua testardaggine è stata premiata.
Seduti al tavolo con le due figlie, Donata ed Elena, i ricordi fluiscono sinceri, tutti ricamati da un sorriso. “Era un padre. Un padre che sapeva essera autorevole ma anche un consigliere, aveva una mentalità molto aperta”. In questo senso era stretta per lui anche la casacca della Democrazia cristiana, con la quale era stato eletto consigliere comunale nel 1975. “Era la fine degli anni ’70 – ricorda Elena – manifestavamo per chiedere un corso di educazione sessuale. Sai com’erano quegli anni. Lui venne di persona al liceo in appoggio degli studenti”. Una reazione alla disciplina rigida con la quale era stato cresciuto e soprattutto una sana curiosità per il nuovo, l’entusiasmo quasi adolescenziale per le idee rivoluzionarie. Era un appassionato del web: “Da quando è arrivato internet passava ore al pc – racconta Donata – si documentava sulla politica e sui fatti dell’Italia, interpretava i segni dei tempi, ma con amarezza constatava sempre che la giustizia non trionfava mai. Pensava sin dall’inizio che la rete fosse l’invenzione del secolo. Dopo essere andato in pensione le sue giornate erano divise tra la famiglia e le letture: libri, giornali e siti internet. A volte lo trovavamo addormentato la mattina davanti al computer con le cuffie alle orecchie. Ordinava tutto via internet, anche i libri, nonostante la sua casa fosse già piena. E poi certe cianfrusaglie. Una volta arrivò a casa un apparecchio: la lavatrice per le verdure. La mamma ne fu inorridita”. Le sue figlie da piccole per prenderlo in giro lo chiamavano “profeta”, perché amava riflettere sulla realtà presente e fare previsioni. Quasi mai campate in aria. Negli ultimi anni intrattenne corrispondenze importanti, in particolare una lunga con Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, del quale amava commentare (e spesso criticare) i lunghi corsivi domenicali.
La ricerca della verità e della fonte fu anche il suo paradigma politico. I suoi interventi in Consiglio comuale erano seguiti in un rispettoso e religioso silenzio, sia dai democristiani dell’opposizione che dalla maggioranza del Pci. Una parentesi nella quale la politica calava il cappello di fronte alla competenza e all’onestà del tecnico e dell’uomo. Salvo poi tornare alle proprie logiche con l’alzata di mano del voto. Questa fu per lui una delusione. E suo malgrado l’impegno politico per la comunità che amava tantissimo fu breve. Forse proprio a causa della camicia stretta delle logiche di partito. Ma il l976 arrivò l’alluvione che inondò di fango una vallata intera e l’emergenza prese tutto il suo tempo. La Ve.Va. stava sotto un metro e 80 di acqua e sembrava che fosse davvero tutto finito. Invece le famiglie Verni e Vannoni, assieme ai dipendenti, si rimboccarono le maniche e ripulirono tutto. Fecero debiti. Con diverse centinaia di milioni delle lire di allora, ammortizzate in bilancio per decine di anni, rimisero in moto l’attività. Il fango, divenuto poco più che polvere, ancora macchia le pagine dei libri contabili che riposano nell’archivio dell’azienda.
Nel 1971 il capitolo più buio di una bella storia. Pietro, il più grande dei suoi cinque figli, morì a Bologna assieme al cugino per le esalazioni di una stufa difettosa. La tragedia è ancora viva nella memoria di chiunque, a San Giovanni. Pietro studiava ingegneria e seguiva volentieri il padre alla fabbrica, nel laboratorio di chimica per testare i colori sui laterizi. Un giorno avrebbe forse preso lui le redini della storica azienda. Era questo un sogno che andava realizzandosi. Di quella vicenda il rammarico più vivido è espresso nelle semplici parole di Vincenzo: “Eravamo felici e non lo sapevamo”.
Il lavoro nella fornace era per tutti l’estensione della sua visione del mondo: “Ricordo il primo contratto integrativo dell’azienda – racconta Giacomo Bedetti – disse che il premio di produzione doveva essere uguale per operai e dirigenti. Perché se la fabbrica andava bene era merito di tutti. E quando andavo a fare i versamenti Inps, le segretarie dei notai strabuzzavano gli occhi nel vedere quanto versavo. Prendevo 100.000 lire di stipendio e versavo per 100.000 lire, com’era giusto. Non la vedevano mica tutti così”. E se gli episodi sono la punta di un bellissimo iceberg, vale la pena raccontare di quando impose a Giacomo di portare con sé la piccola Claudia al lavoro, quando non aveva nessun altro che se ne potesse occupare: “Il giorno dopo arrivò in ufficio con una scatola di colori per mia figlia. Era capace di finezze inimmaginabili. Allo stesso tempo stargli a fianco al lavoro non era facile, perché era preciso ed esigente. Cercava la perfezione e pretendeva che anche gli altri dessero il massimo”.
Con il puntiglio e la precisione tipiche sue, forse, Vincenzo avrebbe da ridire anche su queste poche righe, certo incomplete. Magari dopo averle lette e averci riflettuto un po’ su, come faceva lui, direbbe che sono quel panegirico che tanto temeva. A te ora vanno le nostre scuse sincere, caro Vincenzo, non volevamo scrivere un “santino”, solo il ricordo, quello bello, di un giusto che ci ha lasciato. Che la terra ti sia lieve.