STORIE DI IERI
di Savio Bianchini
– Il racconto si riferisce a un fatto accaduto negli anni ’50, la farmacia Ballotta di via Mazzini era gestita da due fratelli nel cui negozio si davano appuntamento i cacciatori di Cattolica. Le guardie venatorie avevano il compito di difendere le quaglie dal bracconaggio, di giorno erano due uomini addetti alla difesa dell’ambiente, mentre di sera una squadra speciale composta da cinque persone operava in tutta la provincia di Forlì. Questi, su richiesta dei cacciatori venivano a controllare i luoghi indicati a difesa delle quaglie. Tra i cacciatori vi erano quelli che erano a favore al suono del quaglierino e sostenevano che le stesse quaglie, trattandosi del 99% di maschi, venivano attirati dal suono della femmina la quale si fermava a nidificare. Questa tecnica aveva lo scopo assicurare prima dell’apertura della caccia più selvaggina di maschi creando un danno minore all’ambiente.
La foto della fermentazione fa riferimento ad un quantitativo di 10 q.li di mosto per dare un’idea come paragone al cantinone dove il mosto impiegato era di 20.000 hl. Ed io per sorvegliarla ogni tanto andavo a prendere una boccata d’aria alle finestre.
Nei pressi del cantinone vi erano delle abitazioni le cui famiglie Magnani, Ceccolini, Angelotti, ecc. venivano ogni autunno a protestare. Per loro le mie parole erano sempre le stesse invitandoli alla pazienza.
– Bracconaggio, sparatoria, anidride carbonica (… e tutto Ok!)
Enrico Galli lo ricordo, ero bambino, ma io sono cresciuto insieme ai figli di Guerrino.
C’è ancora quella vecchia vuota casa agraria, un tempo era piena e solitaria, con una carreggiata tanto stretta, dove abitavano Nazzarena e Guerrino Galli (Bazot), il re della porchetta.
Ebbero quattro maschi e quattro figlie, ed oggi intorno a quella vecchia casa Galli ci sono tante famiglie.
Ormai lì intorno sono state costruite tante case, penso che prima o poi si costruirà una rotatoria ma io mai dimenticherò la notte della sparatoria.
Quella sera eravamo io e Dino, figlio di Guerrino ed io mai avevo sempre in tasca il quaglierino che da me era stato dalla famiglia Ballotta ereditato.
Erano i tempi della televisione che si vedeva in bianco e nero, e in quella farmacia il tutto fare era Gualtiero.
Lì dentro si facevano tanti lavori perché si riunivano tutti i cacciatori. Ma tante sere i Ballotta li ho visti lontani dai rumori, con quel trappolone dove c’era quel tripone (civetta) che recitava la sua parte sul balcone.
Sul Fosso Vivare e sul Tavollo, in quei sentieri e su quelle strade strette i Ballotta avevano l’hobby di catturare le civette.
Ed è così che mi è rimasto quel dubbio di quel lontano ieri. Erano dei cacciatori o erano come ero io dei bracconieri?
Ed io su quel podere avanti e indietro andavo camminando con quel fucile di mio zio Ferdinando (Piroza) calibro “16” con quella lunga canna che da casa portavo via nascosto da mia mamma.
Quella sera di giugno era garbino, suonavamo alle quaglie ed avevamo una rete io e Dino; ma eravamo diversi: lui possidente ed io contadino. Dopo le undici di sera, la sorpresa!
Vicino a lui ho visto della gente, e gli ho chiesto: “Chi sono quelli?”, “Sono tornati a casa i tuoi fratelli?”.
Come un fulmine partì lui solo, era arrivata la venatoria, (per intenderci spararono tanti colpi in aria) quella fu una vera sparatoria, che resterà sempre nella mia memoria!
Erano cinque addirittura, ma non ci presero, perché anche loro avevano paura.
Col tempo poi si seppe, che col treno da Rimini erano venuti, mandanti di Cattolica avevano prestato loro le biciclette.
Io feci trenta metri veloci, poi mi rifugiai dove c’era il grano con le ciabatte e il quaglierino in mano.
Ora mi trovavo là seduto sul mio podere ed avevo i nervi tesi dove oggi c’è l’ospedale Cervesi.
Però, sì, la mia paura era durata poco, perché mi aveva rimproverato Dino; mi aveva visto uccidere la quaglia il giorno dopo.
Nel tornare a casa, dove oggi si chiama Frescobaldi quella via, allo sbocco di via Larga, c’erano cinque biciclette ed avevo avuto la tentazione: “Adesso gliele porto via!”
Sono stato fermo pochi istanti pensando: “Glielo faccio un dispetto a quei mandanti”.
Ma c’era una cosa andata storta: loro avevano visto Dino.
Dopo la grande corsa era tornato a quella vecchia casa ed era entrato da quella porta.
Non eravamo partiti con quell’idea di cacciare, volevamo soltanto fare come i marinai il provino, ed è per questo che quella sera a quella casa eravam così vicino, che dopo il fatto alla finestra si affacciò e parlò con loro Guerrino.
Il giorno dopo lo raccontai a casa e così commentò mio zio Agostino: “Se fossi stato io a quella finestra, dove loro eran tanto vicino avrei scelto cartucce col piombo grosso ma non avrei sparato in aria, gli avrei sparato addosso!”
Non ricordo l’anno ma ricordo che la Gemma, la moglie di Dino, aspettava il primo figlio, che oggi è nonno quel bambino, insieme a suo fratello Maurizio è gestore del bar “La Riffa” e si chiama Severino.
Quella notte, dopo il parapiglia, restò sveglia tutta la famiglia.
Ed oggi alla “Riffa” in quella sala, seduto lì in quel tavolo mi trovo con gli amici e gioco a scala.
Parliamo di donne, di caccia e di cartucce, troviamo da dire per quel gioco, facciamo tante scaramucce.
Ormai è un anno che per accudire il nipote ci manca Mario, quello segna i punti, lo rispettiamo e lo chiamiamo primario.
C’è anche Sergio Zaghini pensionato alle prese coi nipoti alla guardia dei bambini e con lui ne ho parlato, questo è vero, dove oggi c’è la tua casa vi era un pagliaio, e al posto dell’ulivo quel secolare pero.
Vicino al nostro tavolino c’è l’altro che è di spalle a Tino, è uno che nella vita poteva stare bene, ma la vù poca testa, u s’é amazè sli su mèn, prima u i’è andè via da chèsa un fiòl, e pu la moi e adès e chèn.
Su Tino Verni ancor niente ho raccontato perché ho avuto esperienza nel passato e se ne approfitta perché, in casa ha un figlio che è avvocato.
Però quella telefonata lo sa Tino quando chiamai un nostro amico imitando il prete don Serafino.
Dovevo ritirare dodici uova di tacchino, feci uno scherzo ad un amico, lo chiamai al telefono imitando la voce di don Serafino.
Prima di tutto l’ho rimproverato, perché come me risultava vedovo, ma io, alzando la cornetta, voci di donne avevo catturato.
Poi, dopo un momento, gli dissi: “Sto controllando il vostro versamento e vedo che siete stato un po’ restio, di fronte alla parrocchia ed anche a Dio”.
A questo punto non seppe più che dire, che fare, e fu questa la risposta: “Si può sempre rimediare!”. I soldi alla parrocchia voleva portare.
Mi venne da ridire, più avanti di così non riuscì ad andare, è lì che mi scoprì, e l’ha fat l’urle dla liberazion, e an m’ha ciamè per nom, ma l’ha cambiè, u m’ha dét “Bucalon”! Ma fort um l’ha det, cal trimèva tut d’intond… cum l’è stè catìv el nost Sicond!
A i’ho dét : “Sta chèlme, pensa più me bèl, tut t’arcord cla sera ad carnevel? Per tut cla sera, per cla partida persa fora chèsa, chi du ambizios i n’ha mès el cor in pèsa, pin ad chèrt, quindgian ad mènc, drénta te bar ad Saludec, me e te avin giughé come du giuvne e lor i’hà giughé come du vec”.
Ma c’è anche chi è sempre nei guai, e a noi ci chiede: “Perché io non vinco mai?”. Gli rispondiamo: “Tu hai troppe donne di tutte le età, strutture e anche di colore”.
Oggi quel bel pensionato ha cominciato a lavorar col fiore.
Giuseppe attraversa la strada, nel parcheggio poi si perde perché lui è anziano ed ha idee verdi.
Con noi c’è anche Sesto Galli, fratello di Dino, guardatelo in questa foto è un’eccezione, in piedi lì a quel tino.
Mi viene in mente più di trent’anni fa, dove oggi vi è il “Diamante”, tante cisterne per scaricare quel mosto facevano la fila, ero da solo a quel cosìddetto “Cantinone” dove la capienza era di ettolitri venti mila, tutto quel mosto che confusione!
Per avere un’idea basta guardare l’altra foto dove si vede tutta la fermentazione, veder quel mosto che diventa vino, e anch’io e Gaia berremo lì a quel tino, saran tanti i Galli che berran quel vino.
La moglie Dina, le nuore e i tre figli, cominciando dal più grande a Simone il più piccino. Però una cosa ci manca tanto, la porchetta di Guerrino.
Oggi avanti e indietro nell’orto e su quell’aia c’è anche con noi Domenico Gaia, insieme ad altri ci fermiamo a parlare di potatura, di frutta e di verdura.
Con quella coppia inseparabile abituata a lavorare tanto, come ai vecchi tempi, come prima: “Lui è Rino, lei è Galli Mariannina”.
Da qualche anno abbiamo perso Villani Berto, dove c’erano le galline ora quel cancello si può lasciare aperto.
Alla “Riffa” quelle due donne dietro il banco hanno passato l’intera vita: sto parlando della Stefania e della Rita.
Una novità c’è stata, sua mamma è una Galli e la figlia Martina, è la prima nata; quella bambina porta allegria, ma tanta che a volte mi fa dimenticare gli anni miei, perché la sento dire: “E’ tutto a posto”, ma lo dice in inglese: …“E’ tutto ok!”.
Ci tengo a ricordare che in tutto questo tempo, in questo lungo cammino, due Galli abbiamo perso, erano capi famiglia, prima Luigi e poi Lino. Tutti e due figli di Nazzarena e di Guerrino.
E penso a volte agli scherzi del destino: erano stati sguinzagliati quei segugi da quella gente che anni prima a me aveva fatto quel dono; lo stavo suonando il quaglierino, e l’ordine era partito da quella farmacia o dai cacciatori a lor vicino.
In tutta questa vita mia ho pensato tanto a quella farmacia e sessant’anni dopo il caso vuole che la lingua batta ancora là dove il dente duole.
A questo punto io mi rivolgo a Dino e dice al possidente il contadino: a sin nèd tut do tu n’an, mé la moi a l’ho tolta a Gabicce Mare e te ma Santa Maria o ma Sin Gian. Si nost cunfin avin fat insén i fos it ciamèva Galli anche “Bazot”, ma la via Allende, me la genta a la cnos, i fa i dispet.
Ma me e ma te t’vidrè du n’an a clèlt is ciema mos.
Mos l’è un nom che fa un po’ schiv, però s’is cèma al vo di che a sin ancora viv.