IL REPORTAGE
– Ho avuto sempre un certo “pudore” al pensiero di andare in Africa, in America Latina, in India; come si ha pudore ad accostarsi al letto di un ammalato grave; scacciavo il pensiero dicendo: hanno già tanti problemi, non è il caso di aggiungere anche il tuo. Il mio amico Stoppiglia mi rinfaccia ancora, dopo anni, il rifiuto di andare in Brasile con lui, perché gli dissi di non avere le motivazioni.
Eppure sono stato in India (Panjab), in America Latina (Colombia ed Ecuador) e ultimamente in Africa (Nigeria); ho superato le perplessità iniziali e, ultimamente il peso degli anni e il limite della salute, perché nel frattempo sono cresciute in me “le motivazioni”. Oggi le motivazioni sono volti, storie, paure, sorrisi e, non di rado, lacrime.
Paramjit e la sua famiglia mi hanno chiamato in India, ai confini del Pakistan, a sedere in confidenziale conversazione con il padre Momi, la madre e i figli e gustare un buon the, mentre la piccola Emi mi faceva le fusa attorno alle ginocchia, dimostrandomi gratitudine.
Martha Isabel e i suoi nove figli hanno acceso in me il desiderio di attraversare l’Atlantico per incontrarli e riannodare una storia che aveva avuto inizio ventisei anni fa, a Santa Maria, quando don Oreste Benzi me li presentò: allora David, il marito, era ancora vivo e i figli erano solo due, Radha e Govinda.
Qualche giorno fa sono stato in Africa, per rispondere a una domanda semplice, detta con il cuore, dai miei amici e ormai famigliari Emeka, Vittoria, Chiariti, Ladi e Ada: “Perché non vieni a visitare la nostra terra?
E così sono stato in Nigeria. Quest’ultimo viaggio forse l’ho preso un po’ alla leggera, nel senso che ho un po’ sottovalutato che stavo andando in un paese dove la vita è lotta nella sua normalità. Quello che per noi è questione di voglia e di tempo, lì diviene difficile e complicato.
I tempi vanno a rilento come il traffico, se nella giornata ti riesce di ultimare quello che hai programmato torni a casa e ti senti miracolato; normalmente non riesci ad arrivare in tempo all’appuntamento e se ci riesci, la persona che doveva arrivare è rimasta imbottigliata nel traffico caotico.
La viabilità oggi è un problema insormontabile per questo paese e costringe le moltitudini a passare gran parte della giornata nel tentativo di arrivare alla meta prefissata; le strade sono un vero attentato alla vita delle persone e ai mezzi di trasporto; questi sono un po’ tutti rifiuti che il nostro mondo dismette. Per cui si vedono vere carcasse di bus e auto, che, miracolo vivente, riescono ancora a muoversi e a portare il povero carico di cose e di persone alla meta. Lasciando dietro a sé nuvole di polvere e caligine.
Si ha l’impressione che l’Africa diventi a breve una bomba ecologica; già da ora non si vede mai l’azzurro del cielo e una cappa grigia che ti sovrasta per tutta la giornata.
Ma l’aspetto che più colpisce sono le moltitudini di persone che dalla mattina alla sera si mettono in movimento per procurare quanto serve alla persona e alla famiglia. È la lotta alla sopravvivenza. E allora tutto diventa mercato dove si vende e si compra tutto, si apre al mattino ancora buio e si chiude alla sera, quando è già notte: la strada che stai percorrendo, in tutta la sua lunghezza, si fa bazar, dove trovi le povere cose che servono per tirare avanti: benzina, frutta, farine, acqua, pezzi di ricambio. Eppure vedi il sorriso sul volto dei bimbi e se entri nelle povere abitazioni ti accolgono con gioia.
È una popolazione molto giovane e si ha l’impressione che se troveranno una guida politica all’altezza della situazione possa avere un futuro di speranza.
Ora le cose non vanno bene. Sto parlando di un paese dove l’1% della popolazione ha il controllo quasi assoluto della ricchezza nazionale e in cui i fondi destinati alla spesa pubblica sono una misera manciata di spiccioli rispetto al volume complessivo del denaro generato dal business petrolifero.
Un paese corrotto nel quale il diritto alla cittadinanza sembra ancora una nozione astratta per la grande maggioranza della popolazione.
In questo contesto “caratterizzato da forti disparità sociali”, è facile manipolare l’insoddisfazione dei ceti meno abbienti in nome dell’appartenenza a questa o quella etnia, o anche in nome della fede.
Eppure, tutti sanno che dietro le quinte si celano interessi politici di parte, giochi di potere e antiche rivalità, sia a livello regionale che nazionale. I politici, anche i nostri, fanno delle letture di comodo per nascondere i veri problemi. I missionari che vivono la situazione sanno bene come stanno le cose: “Quando hai a disposizione masse di gente non povere, ma misere, fai presto a sfruttarle e a lanciarle l’una contro l’altra, facendo accadere anche dei massacri”.
È la questione sociale, economica e politica che, a volte, fa scattare queste follie che poi alcuni giornali amano presentare come dovute alla religione. La causa prima dell’instabilità di quella terra, “metafora delle ingiustizie di oligarchie che godono della connivenza di potentati stranieri” è che letteralmente “galleggia sugli idrocarburi”. (padre Franco Moretti, comboniano).
Monsignor John Olorunfemi Onaijkan, arcivescovo di Abujia, ha dichiarato l’8 marzo scorso a radio Vaticana: “Facilmente la stampa internazionale è portata a dire che sono i cristiani e i musulmani a uccidersi. Ma non è questo il caso. Perché non si uccide a causa della religione”. Le vittime infatti “sono povera gente che non sa, che non ha niente a che fare con tutto questo e che non ha alcuna colpa”.
Le missioni cattoliche stanno facendo un prezioso lavoro a riguardo della scolarizzazione e della formazione delle giovani generazioni: la cultura dovrebbe essere l’arma vincente!
Per concludere questa breve riflessione, posso dire che è stato un viaggio duro e amaro, ma che ha lasciato in me tanta dolcezza.