LA CULTURA
– Arte povera ma nobilissima nelle forme e nelle smaltature. Uno dei ”poeti” contemporanei più bravi aveva fabbrica nel borgo di Montefiore Conca. Era la bottega della famiglia Franchetti, chiusa pochi anni fa per mancanza di eredi. Oggi, purtroppo, le botteghe sono quasi tutte scomparse. Forme immutate nei secoli quelle delle terrecotte d’uso. Non si sa quando nascono, però con quei caratteristici smalti le ritroviamo nel 1500-1600. Le forme non sono difficili; il loro valore sta nell’eleganza delle forme e nella bellezza degli smalti (manganese per il marrone, l’aramina per il verde e l’antimonio per il giallo). Lo smalto bello deve essere corposo, grasso, lucido.
Un bravo ceramista deve essere capace di modellare delle forme con il tornio a pedale. Dall’argilla informe, quasi per magia, sa tirare fuori linee perfette quanto eleganti. Sarebbe difficile dare una classificazione storica alle terrecotte d’uso, perché si sono tramandate immutate nei secoli. Queste forme si trovano in tanti dipinti antichi; di notevole pregio quelle del fanese Carlo Magini, grandissimo artista.
La Banca Popolare Valconca per festeggiare il centenario della nascita ha orgnizzato una mostra: “La Bottega Franchetti”. I pezzi sono in esposizione dal 12 febbraio al 30 marzo negli spazi della filiale di Morciano di Romagna, in via Bucci 13.
Bottega Franchetti
I Franchetti non sono mon-tefioresi. Vi giunsero alla fine dell’Ottocento da Santa Maria del Piano, dove esisteva, ed esiste tutt’ora, una vera e propria scuola.
La bottega si trovava sulla sinistra, cento metri dopo l’ingresso nel borgo di Montefiore. E’ molto probabile che la famiglia scelse Montefiore per almeno due ragioni: la facilità di prelevare la terra e la poca concorrenza. La terra rossa di Montefiore, zona Pedrosa, era ottima per il vasellame rosso, quello da cucina.
Dagli anni ’80 in poi, tale settore scomparve quasi dalla produzione Franchetti. Un segno del cambiamento dei costumi. Attraverso il coccio d’argilla si può ricostruire una certa società scomparsa. Ad esempio, quando si andava alla fonte per l’acqua, la distinzione tra benestante e non era indicata dal colore dell’otre. Quello dei ricchi era nero, quello dei meno abbienti giallo. I Franchetti producevano: piatti, vasi, pignatte, catini, boccali, scolapasta, olle, zuppiere, bottiglie.
La bottega per certi versi era un museo attivo. Piccola, annerita dal fumo, su due piani, sotto si procedeva alla prima lavorazione ed alla cottura. Sopra, il negozietto che dava sulla strada. Dietro il laboratorio vero e proprio con due torni di legno azionati dai piedi. Erano talmente unici che la stampa tedesca se ne occupò. Ne raccontò la storia la “Koelnische Rundschau” (quotidiano di Colonia) e la Bild.
Pezzi al museo della ceramica di Feanza, il più importante del mondo, i Franchetti prelevavano l’argialla a San Gaudenzo. Adagiata per terra, veniva setacciata dalle impurità con un filo di ferro. Successivamente veniva messa ad asciugare per l’acqua in eccedenza. Poi si impastava e si lavorava come se si preparassero tagliatelle o piadina.
A questo punto si entrava nella fase più affascinante: le forme. Si prendeva una pallina di terra, si collocava sul tornio fino all’oggetto desiderato. Una volta “estratto”, i pezzi si collocavano su tavole che venivano essiccate al sole. In genere, nella bella stagione, occorreva una settimana. Una volta asciutte, si passava alla decorazione ed alla smaltatura. Poi, l’ultima fase, la più difficile: la cottura.
I Franchetti la effettuavano in un forno dalla volta a botte, usando come combustibile la legna. La porticina d’ingresso veniva murata e si scrutava la cottura attraverso un piccolo foro. L’infornata durava 12 ore e non sempre il vasellame usciva integro. A Montefiore fino a dopo la Seconda guerra mondiale esistevano quattro vasai. Il forno montefiorese era molto simile ad uno romano rinvenuto a Marzabotto (Emilia).
La bottega Franchetti è stata caratterizzata dai fratelli Domenico e Ugo. E da Claudio, il figlio di Ugo, scomparso prima del tempo negli anni ’90. Oggi la bottega non è più attiva, ma rimane vivo l’interesse per le tecniche a suo tempo utilizzate e rintracciabili nelle opere, come quelle in esposizione, custodite gelosamente da collezionisti privati.