LA RIFLESSIONE
di Piergiorgio Morosini*
– Ricordate Salvatore Cuffaro. Il Governatore della Sicilia dal giugno del 2001 al gennaio del 2008, poi Senatore. Circa sette anni fa, iniziò un processo nei suoi confronti. La Procura di Palermo lo accusava, tra l’altro, di avere avvertito un boss, agli arresti domiciliari, della presenza di una microspia nel salotto di casa. Un salotto dove quotidianamente si tenevano summit mafiosi. Senza quella soffiata si sarebbero scoperti tanti misteri ed evitati efferati delitti. E forse Provenzano lo si sarebbe catturato 5 anni prima. Anche allora si gridò allo scandalo. Accuse inconsistenti e magistrati “politicizzati” che andavano contro il voto di milioni di persone. Ebbene. Qualche settimana fa, la Cassazione ha emesso il verdetto finale su quella vicenda. Cuffaro condannato a sette anni di reclusione per aver favorito Cosa Nostra.
La vicenda propone tre spunti di riflessione sui rapporti tra giustizia e politica.
Primo. L’importanza delle intercettazioni. Grazie a queste si è fatto luce sulle responsabilità di Cuffaro. E’ accaduto tante altre volte. Patti occulti tra uomini delle istituzioni e cosche, riciclaggi al nord, megatruffe, gravi fatti corruttivi. Solo le “cimici” le possono svelare. E solo le “cimici” rendono possibili quei sequestri a danno dei criminali che portano nelle casse dello Stato patrimoni per milioni di euro. Eppure le intercettazioni in Italia, secondo importanti uomini politici, sono una sorta di “pietra dello scandalo”, un “rischio” per la democrazia. Un giorno sì e l’altro pure vengono messe in discussione, persino minacciando con sanzioni penali i magistrati che le usano troppo. D’accordo, è odioso violare la libertà dell’individuo nei luoghi di privata dimora. Ma ricordiamoci che quella libertà non è senza limiti, neppure in casa propria. Statistiche alla mano, sempre più spesso violenze e maltrattamenti a danno di minori, donne e anziani si consumano tra le mura domestiche. E poi a chi dice che le intercettazioni in Italia sono troppe, bisogna ricordare una specificità italiana. Siamo il paese delle “tre mafie”. E con una corruzione in vertiginoso aumento negli ultimi anni, che “spreme” all’erario circa un terzo del gettito IRPEF.
Secondo. L’assenza di responsabilità politica. Nel gennaio del 2008 Cuffaro esulta ascoltando la sentenza di primo grado che lo condanna a cinque anni di reclusione per un reato grave come il favoreggiamento. Due giorni dopo, la legge lo costringe alle dimissioni da Governatore della Sicilia. Ma, passa qualche settimana e Cuffaro viene eletto Senatore della repubblica (o forse dovremmo dire viene nominato). Da quel giorno esercita la prerogativa di votare le leggi applicabili a tutti noi. La presunzione di innocenza, che vale sino a che la condanna non diventa irrevocabile, lo consente. Ma c’è un problema di credibilità delle istituzioni. Era giusto candidarlo dopo quella condanna? Non era forse opportuno un “passo indietro” del politico in attesa di chiarire la propria posizione? Sono problemi seri. Tant’è che la stessa Commissione parlamentare antimafia nel febbraio del 2007 aveva varato un codice etico fondato su una regola rigorosa. Diceva: chi viene rinviato a giudizio (un qualcosa di meno della condanna in primo grado) per reati gravi (corruzione, concussione, mafia, truffa, bancarotta, e altro) non può candidarsi alle future tornate elettorali sino a quando non è prosciolto dalle accuse. Quella regola venne approvata dall’intero arco parlamentare. Fu votata all’unanimità. Ma, poi, venne regolarmente violata dai partiti nelle successive tornate elettorali. Ciò significa che non esistono forme di responsabilità politica. E che il controllo sulla legittimità dei comportamenti dei politici è affidato solo ed esclusivamente ai magistrati. Tutto ciò propizia tensioni istituzionali e il sospetto di iniziative giudiziarie strumentali alla lotta politica.
Terzo. L’atteggiamento dell’uomo delle istituzioni. Due ore dopo la condanna definitiva (gennaio 2011), Cuffaro si costituisce presso il carcere di Rebibbia. Prima di farlo, rilascia alcune dichiarazioni alla stampa. Non parla di “complotti” ai suoi danni. Tutt’altro. Con compostezza, afferma che la giustizia va rispettata. E spiega che, accettando quella sentenza, spera di dare un esempio positivo ai propri figli. Insomma, le istituzioni prima di tutto, anche per una persona che ha sbagliato. Non sono cose scontate nel nostro paese, oggi. Pensate a quanto sta accadendo ai magistrati di Milano impegnati nel caso Ruby. Sono bersaglio di insulti e provocazioni di tutti i tipi, anche da parte di uomini politici, solo perché stanno facendo il loro dovere. Molti dimenticano che le procure hanno l’ “obbligo” di indagare in presenza di certe denunce; che la legge è uguale per tutti; e che, in ogni caso, essere indagati non fa venir meno la presunzione di innocenza.
Intendiamoci, i magistrati devono rispettare la critica, da chiunque provenga, compreso l’uomo politico. Lo vuole la democrazia, è uno stimolo per fare meglio. Ma che si tratti, appunto, di critica responsabile e argomentata. Non di semplice aggressione mossa con un linguaggio inaccettabile. Purtroppo, assistiamo sempre più spesso a campagne di stampa palesemente e gratuitamente denigratorie. Giorni fa, la prima pagina di un quotidiano, per screditare l’immagine di uno dei magistrati di Milano, riportava vicende sentimentali risalenti al 1982. Fatti totalmente sganciati dai processi in corso e dalla attività professionale del diretto interessato. Insomma, di tutto si può parlare ma non di critica costruttiva. E pare che tanti cittadini si stiano accorgendo di questo. Gli ultimi sondaggi sono chiari. Cresce il consenso verso gli organi di garanzia come il Presidente della Repubblica, la corte costituzionale e appunto la magistratura. In fondo questo dato esprime un auspicio: maggiore serenità nei rapporti tra istituzioni dello Stato. Su questo, spero, siamo tutti d’accordo.
*Cattolichino
giudice a Palermo