IL PUNTO DI VISTA
– Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative. A Milano il 14 aprile la sedicente associazione “Dalla parte della democrazia” ha riempito i cartelloni elettorali di grandi manifesti recanti la scritta FUORI LE BR DALLE PROCURE. Se ne è assunto la responsabilità l’avvocato Lassini, presidente dell’associazione, e la procura di Milano ha aperto un’inchiesta per «vilipendio all’ordine giudiziario». Poi è arrivata la dura condanna del presidente Napolitano, seguita da quella del presidente del Senato Schifani e della stessa Moratti, che ha dichiarato «o io o Lassini».
Reazioni più che comprensibili: i terroristi di sinistra, infatti, hanno ucciso due grandi magistrati della Procura di Milano impegnati nella lotta contro di loro. Tra l’ altro erano state le Brigate Rosse, tra il maggio 1976 e il giugno 1978, a imporre, con mille violenze e intimidazioni ai giurati, il rifiuto del processo contro di loro, con la tesi «la lotta armata non si processa» (un atteggiamento che ricorda molto la tesi dei berlusconiani, secondo i quali il prenier non si processa).
Lassini ha chiesto scusa al presidente Napolitano: «pentito di quanto fatto». Le cose si sono però complicate, perché Il Giornale, di cui è proprietario il fratello del premier, si è schierato in difesa del Lassini, aprendo la campagna per il voto ad entrambi: «Lassini e Moratti» (Corriere della Sera, 22 aprile 2011). A questo punto Lassini ha ricevuto per telefono la solidarietà di Berlusconi, che infatti aveva parlato di «terrorismo giudiziario», e gli ha detto di «andare avanti»: un bel pasticcio. La Lega di Bossi, preoccupata, si è schierata contro Lassini (e contro la guerra di Libia). A Milano abbiamo quindi una candidata del PDL, la Moratti, contro Lassini, mentre il presidente del Consiglio solidarizza con Lassini. La Moratti dice che il caso è chiuso. Ma nessuno ci crede. La verità è che la Moratti non conta niente: è un soprammobile di cui Berlusconi si serve, così come si serve dei sindaci targati PDL (Romagna compresa).
Non sembri irriverente accostare il nome del grande poeta astigiano Vittorio Alfieri a quello dell’attuale presidente del Consiglio italiano, tenuto conto del fatto che quest’ultimo non deve avere grande dimestichezza con la letteratura italiana, alla quale preferisce, nelle ore libere, le canzonette di Apicella o il bunga-bunga.
Sono stati due atti compiuti recentemente dalla maggioranza della Camera, che è tutta in mano a colui che decide le candidature del 2013 ed è pronta a votare qualsiasi cosa imposta dal premier, a farmi tornare in mente l’Alfieri, all’illustrazione delle cui opere ho dedicato tanta parte del mio insegnamento. I due atti sono: l’interpretazione, della suddetta maggioranza, di una telefonata del 27 maggio 2010 del premier alla questura di Milano, votata come il tentativo di evitare un incidente diplomatico con l’ Egitto di Mubarak allo scopo di proteggerne la nipote (nessuno dei camerieri di Berlusconi, travestiti da parlamentari, si è chiesto come mai il dubbio non fosse stato chiarito in precedenza, dato che la “nipote” frequentava Arcore dal febbraio precedente); l’approvazione del cosiddetto “processo breve”, destinata ad evitare al premier il giudizio in prima istanza sul caso Mills (avvocato precedentemente condannato due volte, con successiva prescrizione in Cassazione, per essere stato corrotto dal premier).
Che cosa c’entra l’Alfieri, si dirà, che tra l’ altro non fu sostenitore di nessuna forma particolare di governo? C’entra, c’entra, perché il grande poeta, che viveva in mezzo alle tirannidi dell’ Europa del suo tempo, con il sesto senso proprio dei geni, diede una splendida definizione di quella che egli giudicava una tirannide. Questa, applicabile alla realtà odierna:
«Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; ed anche soltanto deluderle, con sicurezza d’ impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».
Nella Camera dei deputati della Repubblica italiana, dunque, i «molti» di un sistema «elettivo» e «legittimo» hanno avuto la «forza effettiva» di «deludere» le leggi e di applicare il «tristo» «infrangi-leggi», e «con sicurezza d’ impunità».
E il popolo, che sopporta tutto questo, «è schiavo», aggiunse l’Alfieri. Il popolo italiano, del resto, non è nuovo a schiavitù. Fu schiavo tra il 1925 e il 1945, per vent’anni, durante i quali plaudì a un tiranno che faceva condannare a pene smisurate gli oppositori che lo criticavano; stipulava con il Vaticano i Patti lateranensi per avere il consenso dei contadini cattolici; faceva arrivare i treni in orario e incoraggiava maternità e infanzia, chiedendo in cambio l’educazione alla guerra della gioventù; aggrediva l’Etiopia proclamando l’Impero e faceva guerra alla Spagna repubblicana; si alleava con la Germania nazista e le regalava la persecuzione degli Ebrei; dichiarava infine guerra alle potenze demo-pluto-giudaiche (Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’ America) portando l’Italia alla rovina e centinaia di migliaia di poveri soldati a morire in Africa e in Russia.
Poi al popolo italiano, grazie alle armate anglo-americane e al valore morale del sacrificio dei partigiani della Resistenza, arrivò la liberazione dalla tirannide. Oggi basterebbe molto meno, per raggiungere lo stesso risultato liberatorio. L’ostacolo odierno è rappresentato dalla complicità con il potere di una minoranza di lacché e dalla dabbenaggine di moltitudini abbindolate dalla televisione, e convinte per davvero che la magistratura faccia un uso politico del suo ruolo: una vera mostruosità.
*Libero docente dell’Università di Roma