PERSONE
– Montagne di arachidi. Visto e mangiato per la prima volta i datteri ed i pompelmi fino all’indigestione. Olio d’oliva a fiumi. Una Tripoli bellissima. Un caldo insopportabile. La convivenza tra libici, italiani, ebrei e maltesi. Tutto questo è la Libia nei ricordi-bambino di Renzo Manaresi, già presidente di Famija Arciunesa; vi visse tre anni dal ’51 al ’54.
“Andai a Tripoli – ricorda Manaresi – perché orfano. Là avevo una zia che dalla metà degli anni trenta faceva l’ostetrica. Ci era andata per dimenticare una delusione coniugale. Un conoscente, mi accompagna a Napoli in treno, da dove mi imbarco sull’‘Argentina’, un traghetto. Lungo il tragitto ci fermiamo a Malta. La sua bella rada mi è rimasta scolpita”.
Immagini precise e piacevoli. Ricorda: “Anch’io ho il mio speciale mal d’Africa. In Libia ho visto a mangiato per la prima volta i datteri e i pompelmi; conoscevo solo arance e mandarini. I datteri erano talmente buoni, che la prima volta ne mangiai oltre un chilo. Stetti male. Scoprii i fichi d’india. Anche questi buonissimi; la prima volta li afferrai nelle mani senza precauzioni. Nel palmo mi restarono centinaia di aculei piccolissimi e fastidiosi”.
“C’era – continua Manaresi – tanto olio d’oliva che poteva andare per i fossi, con ulivi grandi come querce. E per me fu anche la prima volta che vidi le angurie lunghe. Immense. Tutto questo ben di Dio veniva coltivato dagli agricoltori italiani, che avevano ricevuto in concessione dallo Stato le terre”.
Il piccolo Manaresi frequenta tutte le medie. La prima volta in una scuola pubblica per italiani. La seconda e la terza presso l’istituto religioso dei Fratelli Cristiani; trova anche ragazzi benestanti libici e ebrei. Ricorda le figure di Mahmed (il babbo sarà poi ministro col re Idris) e Harnnuna, figlio di uno dei maggiori commercianti ebrei di Tripoli, con negozi di lusso sulla centralissima via Sicilia. A scuola va meglio in arabo che in italiano, rispettivamente sette e sei. Ancora oggi, Manaresi riesce a parlicchiarlo, l’arabo.
La zia, una figura molto importante, viveva in una classica casa araba, senza finestre sulla strada principale. Le aperture si affacciavano tutte sul cortile. Condivideva l’abitazione con due famiglie italiane e due famiglie ebree. Il quartiere era poco lontano dal centro ed a pochi metri c’era la moschea (la casa di Manaresi era attaccata al suo muro), la chiesa e la moschea. “Tripoli me la ricordo benissimo. La fortezza turca sul porto. Abitavamo in una strada con libici, ebrei, maltesi (una comunità di pescatori). In fondo, c’era l’arco romano dell’imperatore Marc’Aurelio. Dall’altra parte della strada c’era la caserma della polizia libica, El Azizia, poi diventata il bunker di Gheddafi. Bello il quartiere nuovo costruito dagli italiani. Appena fuori Tripoli c’era l’autodromo costruito sempre da noi, poi diventato aeroporto militare americano”.
Quale rapporto con la gente? Manaresi: “Le donne portavano il baraccano; con un lembo nelle mani si coprivano tutto il volto ad eccezione degli occhi. Le bambine erano a viso scoperto. I rapporti erano tesi. Ad esempio, in via Sicilia, la strada dei negozi belli, c’era un marciapiedi era utilizzato solo dai libici e l’altro soltanto dagli italiani”.
Se nel ricco mare pescavano i maltesi, fuori tortore e pernici imperavano. Il piccolo Manaresi saliva sul tetto-terrazzo di casa e catturava quello che era il mangiare dei re con una facilità assoluta.
Libia, colonia italiana dal 1911 al 1947
– Strappata ai turchi, la Libia fu conquistata dall’Italia nel 1912. La mantenne fino al 1947. All’inizio della Seconda guerra mondiale vi erano circa 120.000 italiani, con una popolazione musulmana di circa 900mila. Tripoli nel 1939 aveva 111.124 abitanti, 41.304 (il 37%) gli italiani. Il 9 di gennaio del 1939 fu incorporata nel territorio metropolitano del Regno d’Italia e tutti gli abitanti ottennero la cittadinanza italiana. Nel ’70, Gheddafi cacciò tutti gli italiani dalla Libia.