IL PERSONAGGIO
– Il piroscafo Vulcania salpò dal porto di Napoli l’11 ottobre 1947. Aveva appena attraversato indenne le turbolenze della seconda Guerra mondiale, riconsegnata alla Società italiana di navigazione dagli americani. La tratta era rimasta invariata: Genova, Napoli, New York. Tra gli oltre 1400 passeggeri che poteva ospitare la grande nave, quasi 24.000 tonnellate di stazza, c’era anche un gruppetto di suore, sottana fino ai piedi e cuffia scura. Le 13 sorelle, maestre pie dell’Addolorata, entrarono nel pancione del transatlantico, lungo quasi 200 metri, terza classe, destinazione Louisiana, nel sud degli Stati Uniti. Verso un’America colorata di nero, dove però gli afroamericani, “i negri”, stavano ai margini.
Suor Caterina Palazzi era la più anziana del gruppo. E forse per una responsabilità che si sentiva addosso proprio per quel particolare dell’età, era quella che infondeva più coraggio, non aveva paura, e rincuorava anche le altre. Ed è ancora così. Ora di anni ne ha compiuti 100, suor Caterina, o sister Catherine, come la chiamano laggiù è ancora la più anziana, la memoria storica di una meta raggiunta. Sono passati 64 anni dall’imbarco e la partenza: dal ponte di una nave che sembrava immensa, partivano verso un paese dove tutto era più grande.
Caterina Palazzi è originaria di Montespino di Mondaino, è nata nel 1911 e il sette gennaio ha compiuto un secolo. La storia della sua vocazione ha come sfondo gli anni ’20 e ’30. Le sue braccia e le sue dita veloci a lavorare la lana e cucire i tessuti erano per la madre una grande speranza: “Perdo una figlia” diceva.
Da tempo Caterina parlava della chiamata che sentiva da Dio, ma questo voleva dire privare la famiglia di un’ottima sarta che poteva aiutare in casa. Solo attorno ai 25 anni ebbe la possibilità di andare a Tavoleto, nel convento delle maestre pie dell’Addolorata e vestire il velo.
Con altre 12 sorelle dell’ordine fondato da Elisabetta Renzi, rispose alla richiesta del vescovo di Alexandria (cittadina della Louisiana), Charles Pasquale Greco, nato da genitori italiani, di andare laggiù a fondare delle scuole per bambini con gravi disagi, legati alla povertà e alla malattia mentale. Soprattutto bambini di colore.
“Quando partirono – racconta Giorgio Segantini, nipote di primo grado di suor Caterina, che racconta di lei e mostra le foto che gli inviava dalla Louisiana – ci dissero di pregare per loro. E noi pregavamo per le nostre suore che andavano in America”. L’inizio infatti fu difficile.
Il vescovo di Alexandria non poteva provvedere a tutto. Diede loro un alloggio ma al resto dovettero fare fronte con l’ingegno e il sacrificio, in un paese straniero del quale non conoscevano nemmeno la lingua.
“What do they eat?”. Si chiedeva la gente con l’accento strascicato dei “dixies”, gli abitanti del sud, che le vedevano chine sui campi a raccogliere chissà quale tipo di verdura. Non erano altro che il corrispondente delle nostre erbe di campagna, costrette anche a questo, all’inizio, per non fare la fame. Le risorse erano poche, una volta suor Caterina raccontò che per compassione un proprietario terriero della zona ammazzò un bue e glielo diede in dono per Natale. Da tanti erano guardate con sospetto o comunque diffidenza. Spettò a loro farsi amare da quella comunità, come accadde piuttosto in fretta.
La prima sede della loro scuola fu un ex albergo, acquistato dal vescovo Greco nella cittadina di Clarks. Il primo anno si presero cura di sette bambini. Nel secondo oltre 300, provenienti da 34 stati diversi della federazione. Creature che soffrivano gravi disagi. In tutti i sensi.
Il primo e, forse, il più difficile da superare, era quello del colore della pelle. In quella che già allora poteva definirsi come la più grande democrazia del mondo e che, solo da pochi anni, aveva sconfitto il male assoluto al di là dell’oceano, soprattutto negli stati del Sud come la Louisiana ancora accettava che il mondo fosse diviso in due. Di là da venire erano le lotte per i diritti civili che cominciarono solo negli anni ’50. Martin Luther King era poco più che un ragazzo. La prima protesta contro la discriminazione razziale sarebbe stata quella di Rosa Parks, che si rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus, a Montgomery, Alabama, altro stato razzista del sud. Ma era il 1955. Anche Rosa Parks faceva la sarta, proprio come suor Caterina, e divenne una delle figure simbolo nella lotta contro la discriminazione.
Il contesto quindi era a loro sfavore. La loro scuola, per la gente del luogo, era quella dei negri handicappati. Solo col tempo impararono ad apprezzare il lavoro delle suore italiane. Iscrivendo addirittura i loro bambini, finalmente i bianchi con i neri e non il contrario.
Sister Catherine insegnava economia domestica, i lavori di casa. Aveva la patente e andava a nord-ovest a fare la spesa e a trovare le consorelle a Shreveport. Intanto nascevano nuove scuole e arrivavano altre suore. Quando la diocesi ebbe a disposizione le risorse finanziarie poterono spostarsi da Clarks ad Alexandria, uno dei centri più importanti dello stato, in un campus ben attrezzato, dove assieme a loro operano tutt’ora pediatri professionisti ed esperti nel recupero di deficienze mentali e fisiche, medici e infermiere.
E poi c’era l’Italia e il paese, dove nessuna delle sorelle rinunciava a tornare periodicamente. Per ritrovare i propri cari e per raccontare la vita che avevano trovato laggiù, in un profondo sud così diverso. Facevano a turni, ogni anno un gruppetto di loro faceva visita ai parenti e non mancava mai il giro dei paesi vicini per andare a portare i saluti alle famiglie di quelle che erano rimaste in America.
“Caterina ogni volta che tornava in Italia ci raccontava di come qui fosse tutto più piccolo. A cominciare dalle auto – ricorda ancora il cugino Giorgio – ma anche le case e i palazzi”. Certo Alexandria non era New York, però da una parte all’altra dell’Atlantico la differenza era enorme. “Ci faceva notare come da loro non mancassero il frigorifero, la lavatrice o la lavastoviglie. Quando da noi ancora molti non avevano luce elettrica o acqua corrente in casa”.
Che il loro fosse un lavoro prezioso non lo sapevano solamente le famiglie di afroamericani, che bussavano alla loro porta. E nemmeno solo i giovani recuperati che finalmente avevano la possibilità di aspirare a una vita normale, un’istruzione, un successo.
Lo riconobbe anche il futuro presidente Kennedy, allora rampante senatore, che era cattolico praticante. Quando il permesso temporaneo per le suore stava per scadere, senza possibilità di rinnovo, su appello dello stesso vescovo Greco fece approvare una legge in senato per ovviare alla rigidità delle norme americane sull’immigrazione.
Così anche un pezzo di storia, quella che si scrive con la “s” maiuscola, è entrata nell’opera delle maestre pie dell’Addolorata sbarcate con una grande nave in America 64 anni fa.
Sister Catherine, o suor Caterina, come la chiamerebbero a Mondaino, ora si riposa nella casa di Shreveport assieme al sister Mary B, detta “suor bicicletta” per via della sua sana abitudine a pedalare. Con un secolo sulle spalle in un paese ora davvero così più grande. Grazie anche a lei.
Matteo Marini