– Cercando fatti da tradurre in norme e norme che chiedono la verifica dei fatti, il giurista approccia la politica. La criminalità organizzata rimane in agenda, ma altri temi saltano la coda.
L’argomento che s’impone riguarda Mura Muraglie Valli, un muro considerato nel suo complesso, noto a storia e a civiltà diverse. Trump ne ha annunciato uno; la Germania né ha abbattuto un altro. In mezzo, 25 anni di occasioni perse e prospettive da raccogliere. Si parte dal più recente, dal muro americano.
Ricerca scientifica e curiosità mi hanno portato spesso negli Stati Uniti. Eppure non li conosco. Li ho intravisti, soffermandomi sulle coste. New York, Boston, San Francisco non sono gli Stati Uniti; sono solo una parte degli Stati Uniti così come Boise, Oklahoma City, Little Rock. E lì sono diversi, non hanno porti che li legano al mondo. La East e la West Coast sono globali, in mezzo c’è l’autosufficienza che la politica altrui chiama isolazionismo, ma che per l’americano sono semplicemente spazio: una frontiera nel mito della frontiera.
Questo senso di spazio sfugge all’europeo per quanto è innato nell’americano. E con qualche ragione. Gli Stati Uniti d’America sono una parte dell’America, eppure lo statunitense è diventato l’americano per antonomasia, almeno per chi non vive su quel continente. Quasi dieci milioni di km quadrati, 6 fusi orari, 4.490 chilometri tra New York e Los Angeles. 50 Stati federali, tanto sospettosi sulle possibili intromissioni del governo centrale da voler mettere in Costituzione il diritto di portare armi, utili per una milizia laddove a Washington venissero strane idee. 50 Stati nati da tredici colonie inglesi che, rivendicando il diritto dei cittadini di essere politicamente rappresentati, perché contribuenti di un fisco poco amato (no taxation without representation), hanno infine conquistato l’indipendenza annunciando che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati di diritti inalienabili come la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità. Era il 1776. Solo tredici anni dopo ci sarebbe stata la rivoluzione francese, da cui l’Europa fa partire la sua modernità. Altre guerre e acquisizioni territoriali da Francia, Spagna, Messico, Russia hanno reso gli USA la quarta nazione al mondo per estensione dopo Russia, Cina, Canada. Insomma, due a due nella gara dei più grandi, tra America e Asia. In mezzo l’Europa, piccola madrepatria, ma ricco serbatoio d’emigrazione che ha avuto negli USA una destinazione privilegiata.
Oggi sono 325 milioni gli statunitensi. Un crogiolo di gruppi etnici (72,4% di bianchi; 12,6% di neri; 4,8% di asiatici; 0,9% di nativi americani; 0,2% delle isole del Pacifico) e di nazioni-territori (50,7 milioni di tedeschi; 50,4 di origine ispanica; 42 di afroamericani; 37,5 di britannici; 34,5 di irlandesi; 20 di origine asiatica; 18 d’italiani; 11,8 di francesi; 6,4 di ebrei) (censimento 2010, fonte Wikipedia, USA).
Per atteggiamento e cultura, gli USA preferiscono trovare soluzioni anziché dilungarsi nell’analisi di un problema. L’importante è che funzioni, non come ci si è arrivati. ‘Sì, possiamo farcela; sì, l’abbiamo fatto’ (‘Yes, we can; yes, we did ’), così ha concluso il suo discorso di commiato, il presidente uscente Barack Obama. Le statistiche su economia, disoccupazione, ricerca sembrano dargli ragione, quando il problema è l’economia e la disoccupazione. Ma gli americani non se ne sono accorti. Perché alle statistiche sfugge la percezione, il disagio, il timore viscerale nei WASP (White Anglo-Saxon Protestant della classe media) di perdere la loro centralità negli USA, dopo che gli USA l’hanno persa nell’economia del mondo.
Un muro allora. Un muro lungo i 3000 km del confine tra gli USA e il Messico. Un muro contro la paura, contro la manodopera a buon mercato, contro il disavanzo commerciale da 60 miliardi, contro il diverso. Un muro contro gli altri è un muro contro di sé, contro il riflesso di sé visto negli altri. La storia lo ricorda. La muraglia cinese, prototipo di ogni muro per la sua imponenza; il vallo di Adriano, fragile passo indietro dell’impero romano dopo la conquista; il muro di Berlino, frattura di una Germania spezzata in due dalla follia di una guerra mondiale, sono testimonianza di debolezza, paura, punizioni. Non proteggono da chi è all’esterno del muro, imprigionano chi è all’interno.
Ma la storia non è un argomento americano, perché molti americani sono scappati da una storia; perché non vogliono più essere coinvolti nelle guerre europee; perché loro è il futuro anche se, con la crisi, sono costretti a guardare il presente. E c’è molta rabbia in questo presente. La classe media si è sciolta tra poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. Gli USA non hanno più una superpotenza come nemico, ma hanno cercato – e sono stati trovati – da nemici con una identità religiosa e la presunzione di rappresentare un miliardo di persone. La guerra è diventata strumento d’identità dove prima c’erano ideali e guerra, libertà e guerra, progresso e guerra.
Dunque, un muro s’ha da fare. Il muro individua un nemico, definisce un’altra guerra. Ma se la politica è voce che segue le urla altrui, il diritto è impegno ideale che difende la persona. In un articolo del New York Times, i professori Hemel, Masur, Posner della Chicago Law School, vedono in una sentenza della Suprema corte americana, relatore il giudice Scalia, un ostacolo alla costruzione del muro messicano. In Michigan contro EPA (29.6.2015) la Corte Suprema ha infatti censurato una norma della Enviromental Protection Agency, in tema di emissioni di mercurio, per via dei costi eccessivi che avrebbe provocato all’industria, secondo il motto che nessuna regolazione è appropriata se apporta significativamente più danni che benefici (No regulation is ‘appropriate’ if it does significantly more harm than good)(NYT 26.01.2017).
Ci si concentri sul principio. Beni di altissimo valore, come la salute, possono essere oggetto di un’analisi costi-benefici. Non è così in Italia, almeno non in apparenza. Per esempio, sui luoghi di lavoro la nostra giurisprudenza richiede la massima sicurezza tecnologicamente possibile, anche se poi fa rientrare i costi e i tempi di realizzazione – così come quel che è fattibile tecnologicamente – valutando secondo ‘ragionevolezza’ (C. cost. 312/1996; C. 21.12.2006). Ma nemmeno negli USA la valutazione economica prevale senza colpo ferire, giacché dietro l’uso degli avverbi si aprono molte porte all’interpretazione da dare a quel che ‘significativamente’ produce più danno economico che beneficio alla salute.
Prospettive diverse, aderenze più o meno marcate al testo originario, ma un ragionamento per valori e principi avvicinano il fare delle corti costituzionali. E i principi vanno oltre il caso concreto. Il che significa che nella sentenza del giudice Scalia, il più conservatore e brillante membro della Corte suprema, da poco scomparso e molto elogiato dallo stesso Trump, potrebbe arrivare l’ostacolo più forte al suo muro messicano: i costi. Le possibilità di contenere il fenomeno migratorio sono molto basse; i costi di costruzione vanno dagli 8 ai 15 miliardi di dollari, più 500 milioni all’anno necessari per la sorveglianza; il PIL si abbasserebbe di 2,6 trilioni in dieci anni per minori imposte, tasse e scambi commerciali in caso di una deportazione di massa degli immigrati irregolari. Appunto, costi significativi rispetto benefici dubitabili.
Nel frattempo, un giudice newyorkese, e un giudice federale di Seattle, hanno bloccato gli effetti di un ordine presidenziale che impediva l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette Paesi islamici. Che sia per i costi, che sia per i diritti, negli Stati Uniti si sta prospettando uno scontro inedito tra Governo e Magistratura. Il muro ha già diviso prima di essere costruito. La storia continua, fedele a se stessa.
*Alessandro Bondi,
professore, cattedra di Diritto penale Dipartimento di giurisprudenza Università di Urbino