Giorgio Girelli
MASCHILE, FEMMINILE…E IL NEUTRO DIMENTICATO
di Giorgio Girelli
Nel corso della trasmissione “Otto e mezzo” del 20 ottobre scorso è riemersa la questione della versione al femminile di denominazioni istituzionali: Lilli Gruber e Laura Boldrini sostenitrici del termine “sindaca”, mentre il giornalista Francesco Borgonovo insisteva su “sindaco” anche per le donne, osservando peraltro che l’appellativo nel caso di specie è neutro e prescinde dal suo “contenuto”, maschile o femminile che sia. Qui la Gruber deve avere frainteso perché ha rilevato che le donne non sono genere neutro, il che non c’entrava proprio con quanto sostenuto da Borgonovo.
Qualcuno a suo tempo ritenne un po’ brusco il richiamo del Presidente Napolitano, contrario alla versione al femminile delle denominazioni di cariche istituzionali. Ma il suo rilievo era fondato. Infatti soprattutto per tali cariche ( consigliere, sindaco, presidente, cancelliere, prefetto, giudice, tenente, generale, ammiraglio, ecc) si dovrebbe tenere conto che la lingua italiana, oltre al maschile ed al femminile, prevede appunto il neutro, genere grammaticale (“che si oppone al maschile ed al femminile”, come precisano i vocabolari) funzionale alla individuazione delle cariche, indipendentemente dal sesso di chi la riveste.
Financo il Corriere della Sera però ha un (o una ?) titolista – a quanto pare autocefalo, come le chiese ortodosse, vista la discontinuità del quotidiano nella applicazione del criterio – non nuovo a volgere al femminile termini che indicano ruoli istituzionali: ad esempio il 1 settembre 2018 (pag. 5) ha titolato a grandi caratteri “… le parole della Prefetta”. Ma nella stessa pagina, nella didascalia sotto la foto della signora, viene usato il termine “Prefetto”. E nelle medesime pagine del primo settembre, inoltre, nella edizione del Veneto, il termine “Prefetto”, riferito sempre allo stesso funzionario, compare a grandi caratteri nei titoli della prima e della seconda pagina.
Per converso, per par condicio, gli uomini il cui status professionale od operativo è identificato con termine la cui desinenza è “a” (archiatra, patriarca, guida, pilota, atleta, ciclista, cabalista, archivista, musicista, astronauta, geometra, pediatra, artista, ecc..), tipica del genere femminile, dovrebbero rivendicare una versione con la “o” finale? Certo, la lingua ha una sua grammatica che per ragioni storiche e sociali si combina con l’apporto di deroghe all’impianto consueto: e quindi abbiamo anche infermiera, poetessa, direttrice, avvocatessa (non da tutte gradito) ma anche avvocata (come Maria), professoressa, ed anche senatrice, il cui uso è da tempo pacifico. Su spinta della onorevole Fedeli, ora ha preso piede anche “ministra”.
Il settore dei nomi professionali è particolarmente soggetto a discontinuità e oscillazioni, come osserva l’Accademia della Crusca, che dipendono dai cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi decenni e dal nuovo ruolo della donna nella società contemporanea.
Ma di qui a generalizzare con versioni che urtano udito e buon senso, anche laddove l’uso del neutro dovrebbe appagare tutti, ce ne corre. È poi curioso rilevare che, laddove desinenze “maschie” o “femmine” non vengono in causa come per i titoli che terminano in “e”, si intende piegare al femminile termini che hanno appunto nella “e” una via di mezzo che non privilegia alcuno: eppure è invalso l’uso poco ortodosso di cancelliera. E allora dovremmo introdurre anche “presidenta” (pur azzardato da taluno, anche se cacofonico e un po’ ridicolo), tenenta, generala, dipendenta, cantanta, assistenta, e così via. Senza chiedersi poi se le innovazioni sollecitate, ed acriticamente recepite dai media, possano trovar ingresso, ad esempio , in testi normativi : la mancata citazione di un sesso potrebbe porre il problema se quando, ad esempio, si citano ministri o prefetti debbano ritenersi escluse le “ministre” o le “prefette”.
Fino a pochi decenni fa il suffisso “essa” indicava “moglie di”, piuttosto che una forma di femminile professionale: nel 1938 il Migliorini indicava “presidentessa” come “moglie del presidente”. In diplomazia “ambasciatrice” ha individuato la consorte dell’ambasciatore. L’accesso all’alta carica di molte donne ha posto il problema non solo di come indicare il consorte dell’ambasciatore donna, ma ha introdotto l’uso del termine “ambasciatrice” se l’alto esponente è donna. Anche se molte diplomatiche preferiscono il termine “ambasciatore”. Come in musica, donne che dirigono orchestre rifuggono dal termine “direttrice” ed esigono il nome di “direttore”.
Termini tradizionalmente attribuiti a uomini uscenti in “e” sono linguisticamente ambigenere e gli articoli “ il” o “la” sono, per lo più, sufficienti ad indicare il sesso. Anche l’Accademia della Crusca riconosce “piena legittimazione della forma: la presidente”. Quindi il riassestamento maschile-femminile avviene attraverso l’articolo: la cantante, la preside … Ma anche questo accettabile criterio ha le sue eccezioni: ormai è accolto il termine “la cancelliera” a dimostrazione di come, di fatto, la vitalità della lingua non è ingabbiabile in regole ferree. Per taluni ruoli istituzionali poi (prefetto, generale, …) appare imprescindibile il ricorso all’articolo “il”, che non è prerogativa maschile ma esprime anche il neutro con funzione ambigenere e tutt’altro che discriminante. Del resto il sistema ha le sue compensazioni: diciamo la giunta, la commissione, anche se i componenti dell’organo sono tutti maschi. Conclusione: accogliere ciò che nella lingua parlata e scritta si impone in modo consolidato. Non persistere in fanatiche innovazioni dissonanti e distorte laddove il sistema offre soluzioni che non siano bizzarre o cacofoniche. Soprattutto: tener presente che una effettiva ed auspicabile parità tra i sessi necessita di ben altre battaglie.